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L'AVVOCATO CONTE SUL BRIGANTAGGIO

LUNEDI' 3 FEBBRAIO 2014

LA REPRESSIONE DEL BRIGANTAGGIO
CONTENUTI PROCESSUALI, STORICI E GIURIDICI DELLA LEGGE “PICA”.


di AUGUSTO CONTE

1)LA LEGISLAZIONE ECCEZIONALE – 2)LA COMMISSIONE D’INCHIESTA SUL BRIGANTAGGIO – 3)IL PROGETTO DI LEGGE PRESENTATO DALLA COMMISSIONE D’INCHIESTA – 4)IL PROGETTO DI LEGGE PROPOSTO DALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI STUDIO SUL PROGETTO DELLA COMMISSIONE D’INCHIESTA – 5)L’APPROVAZIONE E LA PUBBLICAZIONE DELLA LEGGE “PICA”.

I) LA LEGISLAZIONE ECCEZIONALE
 La legislazione eccezionale, definita anche di emergenza, costituisce una costante nel sistema normativo nazionale; le ragioni, i criteri e i fondamenti che la necessitano risiedono nella complessità e varietà delle componenti economiche, sociali e politiche del territorio nazionale e dei fenomeni che il legislatore, spesso con decretazione di urgenza, ha dovuto affrontare per fronteggiare, appunto, le emergenze, che vanno dalla criminalità organizzata, amche di stampo mafioso, al terrorismo di matrice politica, di natura anche internazionale, ai sequestri di persona, al contrabbando, al traffico di sostanze stupefacenti, al riciclaggio di capitali di illecita provenienza, e fino al pericolo per la sicurezza stradale e agli attentati all’ambiente, di carattere doloso o colposo.
 L’approvazione delle norme per eliminare, prevenire o contenere le manifestazioni offensive della pace sociale, minacciata dai conflitti di alcuni suoi membri e per rialzare la forza dello Stato e preservare e custodire il sentimento del diritto, viene dal legislatore spesso preceduta dalla istituzione di commissioni di inchiesta con il compito di effettuare indagini e approfondimenti sui fenomeni da contrastare, al fine di adottare le adeguate misure, in riferimento alle quali, con altrettanta ordinaria conseguenza, vengono introdotte nuove forme di illeciti di rilevanza penale, nuovi criteri sanzionatori, nuovi metodi di prevenzione, nuovi e più adeguati strumenti processuali, anche in sostituzione di quelli ordinari.
 E’ il grado di civiltà di un popolo a segnare il contemperamento delle garanzie individuali di giustizia e libertà con le esigenze di difesa sociale.
 La repressione del fenomeno del “brigantaggio” nelle regioni meridionali (manifestazione varia e complessa, nei sensi innanzi indicati) agli albori dell’Unità d’Italia inaugura, nello spirito e nelle finalità innanzi riferiti, la legislazione eccezionale o di emergenza, con l’istituzione della Legge “Pica” e la esigenza di conoscenza del fenomeno con la istituzione della Commissione d’inchiesta i cui risultati (condivisi o non condivisi, “politicamente” o meno orientati) ispirarono il dibattito parlamentare sulla discussione per la necessità o meno di emanazione di leggi speciali idonee a combattere il fenomeno e a preservare non solo la pace sociale, ma, specificatamente per il brigantaggio post-unitario, a conservare la raggiunta Unità nazionale.


II) LA COMMISSIONE D’INCHIESTA SUL BRIGANTAGGIO
 Presupposto per l’approfondimento dei principi informatori della Legge “Pica” è rappresentato dalla conoscenza dei lavori e delle relazioni della Commissione e dei progetti di legge che ne scaturirono.
 Ai fini della presente trattazione, riservata alla esegesi della Legge “Pica”, è logicamente e storicamente indispensabile ricordare che la Commissione d’inchiesta parlamentare sul brigantaggio, composta dai Deputati Aurelio Saffi, Giuseppe Sirtori, Stefano Romeo, Stefano Castagnola, Antonio Ciccone, Achille Argentino, Giuseppe Massari, Nino Bixio, venne costituita il 22.12.1862 e prese l’avvio formalmente dalla richiesta formulata dal Deputato Giuseppe Ferrari, il quale, in un intervento alla Camera del 2.9.1961, che faceva seguito a una personale visita nelle regioni meridionali con la diretta visione di eccidi, sostenne la necessità per la Camera di affidare “ad una propria Commissione una inchiesta da condurre nelle province infestate dal brigantaggio per accertare le cause e proporre rimedi per sanare la tragica situazione provocata dalla guerra civile in atti, alimentata dalla erronea politica che nel Mezzogiorno svolgono moderati e Governo” e manifestò “il pericolo del brigantaggio e le conseguenze che può avere nella vita del giovane Regno d’Italia”, venendo contraddetto da Giuseppe Massari, secondo il quale “i briganti sono masnadieri, non un partito politico”.
 La problematica fu sollevata dall’impedimento posto dalla Camera dei Deputati il 20.11.1861 alla presentazione, quale espressione della reazione di legittimisti e borbonici, di una mozione da parte del Duca di Maddaloni, Francesco Proto Carafa, deputato di Casoria, nella quale si affermava che quella piemontese costituiva una vera e propria occupazione che aveva “spogliato il popolo delle sue leggi, del suo pane, del suo onore…..e lasciato cadere in discredito la giustizia” e che l’Unità aveva reso il popolo meridionale “servo, misero, cortigiano, vile”, e alla quale aveva fatto seguito una interpellanza di Giuseppe Ricciardi, eletto nel Collegio di Foggia.
 Nelle discussioni parlamentari intervennero Giuseppe Pisanelli, eletto nel Collegio di Taranto e Pasquale Stanislao Mancini, eletto nel Collegio di Ariano Irpino, già esuli in Piemonte; intervenne anche Luigi Miceli, eletto nel Collegio di Paola (Cosenza) il quale denunciò episodi di ferocia dei responsabili dei comandi militari contro il brigantaggio.
 Riferisce Giacinto De Sivo che nella sola provincia di Napoli in un anno furono registrati 4.300 reati di sangue e che le prigioni erano inumane: “Erano vietate le visite dei familiari, gli avvocati non potevano incontrare i loro clienti, era vietato lo scrivere ed il possesso dei libri; i delinquenti comuni erano mischiati ai detenuti “politici”, ai sacerdoti, ai militari, gente di ogni condizione sociale e di ogni età, carcerati con l’unica colpa di essere parenti o semplici conoscenti di presunti <Briganti>”; aggiungendo che: “Sessanta tra i principali avvocati napoletani protestarono per iscritto contro gli abusi e le illegalità governative nel trattamento dè carcerati, e queste crude accuse ebbero ampio risalto anche in Parlamento, dove furono denunciate le violenze cui erano sottoposti migliaia di cittadini, sia pure colpevoli di reato, sempre invano”; per quindi concludere: “la chiamavano Giustizia, dicevano che così si faceva l’Unità, si creava la nuova Patria. Mancando il fondamento legale in ogni giudizio la discussione in Tribunale veniva artatamente ritardata per poter dar modo alle calunnie di montare, così da far scontare la pena senza nemmeno una condanna ufficiale…..”. Nelle carceri napoletane vi erano 16.000 detenuti, “preti, uomini di cultura, militari, avvocati, medici, commercianti, operai, contadini” insieme a ladri, assassini e malfattori.
 Il dibattito in costanza della recrudescenza del fenomeno, dopo la presentazione di un Memorandum da parte di una Commissione di Deputati, determinò la costituzione di una Commissione Parlamentare presieduta dal Presidente della Camera Sebastiano Tecchio che sulla base di rapporti dei Generali Franzini e La Marmora, il 15.12.1862 presentò una relazione che suscitò allarme sulla autentica portata del fenomeno determinato e alimentato anche dai bisogni dei ceti contadini che li spingeva alla rivolta, e chiese di istituire una Commissione Parlamentare con il compito di proporre una legge speciale di prevenzione e repressione.
 Al fine di evitare sulla base della relazione l’adozione di leggi sgradite alle classi dominanti la Camera si indusse in data 16.12.1862 alla nomina di una Commissione parlamentare per compiere indagini su origini e natura del brigantaggio riferendo, all’esito, in seduta segreta, e con il compito di proporre i provvedimenti più opportuni per la liberazione del meridione dal “flagello”.
 Non era, comunque insolito un consenso popolare: “Alla comparsa dei briganti, il popolino insorgeva spesso facendo piazza pulita di autorità, polizia e “galantuomini” e accoglieva le bande da “liberatrici” con luminarie, feste e Te Deum perché il clero era tutto schierato dalla loro parte”.
 Il 22.12.1862 fu costituita la Commissione con la composizione innanzi indicata che compì l’inchiesta recandosi sui luoghi, assumendo notizie, ascoltando autorità, notabili, gente comune, consultando e riportando atti processuali (specie la Relazione Castagnola).
 La relazione Massari fu, insieme a quella Castagnola, letta in comitato segreto e come sintetizzato dallo stesso Massari nella presentazione del Progetto di Legge presentato dalla Commissione nella tornata del’1.6.1863 “in essa noi vi dimostrammo come il brigantaggio sia un male sociale ingenerato dai pessimi ordini sociali e governativi delle male signorìe passate e debba il suo attuale sviluppo ai recenti mutamenti politici; e come oggi sia mantenuto dalla complicità sciente ed operosa dell’ex-Re Francesco II° e dal Governo Pontificio”.

III)IL PROGETTO DI LEGGE PRESENTATO DALLA COMMISSIONE D’INCHIESTA
 Nella relazione tenuta nella tornata dell’1.6.1863 Massari, a nome della Commissione proponente riferiva alla Camera che: “…..lo schema di legge è destinato a provvedere circostanze eccezionali e che lo stato di brigantaggio, come nell’anzidetta relazione abbiamo dimostrato, è peggiore dello stato di guerra. A farlo cessare sono d’uopo provvigioni energiche e straordinarie…..Perciò noi vi proponiamo di deferire la cognizione dei reati di brigantaggio ai tribunali militari, come sono fissati dal Codice Penale militare per i tempi di guerra, e vi suggeriamo di istituire Giunte di pubblica sicurezza…..”
 Il Progetto di Legge era composto di 29 articoli; con il primo veniva stabilita la competenza del Parlamento per la individuazione delle province da dichiarare “infestate dal brigantaggio” e nelle quali si sarebbe dovuta applicare la emananda legge.
 Il Titolo I°, dall’articolo 2 all’art. 13, istituiva la Giunta Provinciale di pubblica sicurezza, composta dal Prefetto, dal Comandante Militare di zona, dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello o dal Procuratore del Re presso il Tribunale, dal Comandante dei Carabinieri, dall’Ufficiale della Guardia Nazionale e da due cittadini, di designazione provinciale, con il compito di formare le liste dei briganti, avvalendosi della collaborazione di Giudici di Mandamento, Delegati di Pubblica Sicurezza, Carabinieri e Guardia Nazionale.
 Le liste dovevano essere rivedute mensilmente e pubblicate nell’Albo Pretorio dei Comuni. La iscrizione costituiva presunzione di complicità nel reato di brigantaggio, salvo prova contraria, come stabilito dall’art. 25, e alla stessa conseguiva il sequestro dei beni, ai sensi dell’art. 20.
 L’art. 5 forniva il segno del rigore assoluto e dela sospensione di ogni garanzia personale nel prevedere che gli iscritti nelle liste potevano essere arrestati da chiunque e agli esecutori (ivi compresi guardie nazionali, truppa e Carabinieri) era riservato un “premio” in denaro, nella quantità fissata dalla Giunta, anche in caso di uccisione “per legittima difesa” del brigante.
 Il relatore, consapevole della gravità delle disposizioni spiegava che l’esercizio di queste norme era giustificato dalle circostanze eccezionali e doveva essere “ristretto rigorosamente entro i limiti di quelle circostanze”, costituendo “una conseguenza del diritto di difesa sociale” e dovendo cessare quando sarebbe cessata la necessità”.
 La regolamentazione della attività della Giunta avrebbe dovuto “precludere l’adito agli errori e agli abusi”; attraverso la presenza nella Giunta di due cittadini scelti dalle deputazioni provinciali veniva “assicurato” il “concorso del paese…..parte essenziale di prospero successo nella repressione del brigantaggio”.
 Il Prefetto su proposta o parere della Giunta poteva proibire particolari industrie, il trasferimento di determinati oggetti, ordinare la chiusura di masserie, il disarmo, la sospensione di sindaci, di militi e guardie nazionali, di “esiliare localmente o confinare le persone gravemente sospette”.
 Sostanzialmente veniva introdotto quello che si definisce uno “stato di polizia”.
 Il Titolo II°, dall’art. 14 all’art. 26, titolato “Dei reati, delle pene e dei giudici”, istituiva il reato di brigantaggio, individuando cinque ipotesi delittuose, dovendosi ritenere sussistere il reato con 1)la partecipazione a comitive o bande armate volte alla consumazione di crimini o delitti di qualunque natura; 2)la temporanea unione a tali associazioni e il prendere parte alla concertazione o all’assecondamento e favoreggiamento dei malfattori; 3)la somministrazione agli iscritti nelle liste di forniture o il mantenimento di rapporti anche epistolari (oggi sarebbe qualificato concorso esterno); 4)la somministrazione di alloggio e ricovero e di luogo di riunione; 5)lo stato di evaso o disertore in possesso di armi proprie.
 Sulla definizione del reato di brigantaggio la relazione non formulava alcun commento.
 Quanto alle sanzioni, ai colpevoli del reato di brigantaggio che opponevano resistenza armata la relazione chiedeva di applicare la pena della fucilazione; gli altri colpevoli venivano puniti con la deportazione a vita o a tempo, graduando la pena secondo la violazione delle predette ipotesi di reato.
 Ai responsabili potevano essere riconosciute circostanze attenuanti con esclusione dei funzionari governativi o ministri di culto, per i quali era previsto il massimo della pena.
 L’art. 22 prevedeva le disposizioni “premiali” agli imputati “pentiti” che avessero arrestato o ucciso un brigante, potendo godere della diminuzione di uno o due gradi di pena, subordinatamente alla immediata costituzione in carcere.
 La competenza a giudicare gli imputati dei reati previsti nel Progetto di Legge veniva attribuita ai Tribunali militari, di cui al Libro II°, parte seconda, del Codice Penale militare.
 Spiegava al proposito la relazione che la giurisdizione ordinaria doveva ritenersi insufficiente essendo necessario, a simiglianza di quanto stabilito in altre nazioni “provvedere ad una punizione esemplare, pronta ed efficace dei reati di brigantaggio” che sarebbe stata assicurata dalla “giurisdizione militare, quale è fissata dal Codice Penale militare per i tempi di guerra” non potendosi dissimilmente considerare la ribellione dei briganti contro tutte le leggi sociali; né potevano ritenersi offese “le ragioni della giustizia e della umanità” essendo assicurate “le guarentigie per la identità della persona e per la libertà della difesa”.
 Quanto alla pena capitale affermava la relazione che “non si potesse prescindere dalla lugubre necessità di applicare la pena di morte, restringendola a quei casi nei quali il brigante fosse colto colle armi alla mano”.
 Il Titolo III° dall’art. 27 all’art. 29 introduceva disposizioni transitorie con l’ulteriore legislazione premiale della diminuzione di pena agli imputati già costituiti o che si fossero costituiti entro un mese dalla pubblicazione della legge e con la immediata declaratoria di competenza dei Tribunali militari per i processi in corso, salva l’applicazione delle pene previgenti.

IV)IL PROGETTO DI LEGGE PROPOSTO DALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI MODIFICA AL PROGETTO DI LEGGE DELLA COMMISSIONE D’INCHIESTA
 La discussione sul Progetto di Legge della Commissione di inchiesta fu molto accesa anche in relazione alla negata richiesta di pubblicazione degli atti della inchiesta, avendo suscitato viva impressione il rigore delle modalità di repressione del brigantaggio e in specie l’affidamento della competenza ai Tribunali militari.
 E, in effetti, anche approfondendo gli aspetti del Progetto definiti dal relatore Massari come preventivi, è agevole desumere che più che di prevenzione le norme che istituivano le Giunte erano, come si è visto, vere e proprie leggi di polizia, in quanto la iscrizione negli elenchi attribuiva una presunzione di responsabilità con una inammissibile inversione dell’onere della prova di innocenza.
 La valutazione del Progetto di Legge fu affidata a una Commissione composta dai Deputati Massari, Giorgini, Lazzaro, Mancini, Raeli, Poerio, De Franchis, Conforti: quest’ultimo, quale relatore, riferì il risultato dei lavori nella  tornata dell’8.7.1863, comunicando che prima della discussione sugli articoli di legge la Commissione si era poste due questioni preliminari: “1)E’ necessaria una legge speciale sul brigantaggio? 2)E’ compatibile una legge eccezionale con le libere istituzioni?”
 La risposta della Commissione era affermativa sulla prima domanda, non avendo i criteri ordinari avuto alcuna efficacia derivante “non già dalla mollezza onde furono combattuti i briganti, né dalla mitezza delle pene, che tennero dietro ai loro misfatti, ma sibbene dalla mancanza di un concetto unico, dal difetto di sistema e di ordine. Per la qual cosa è necessaria una legge informata da un concetto chiaro e preciso”.
 Pertanto veniva condivisa la necessità della iniziativa di legge della Commissione d’inchiesta, sia in relazione alla appartenenza politica, essendo stata composta da rappresentanza di maggioranza e minoranza, sia dalla qualità dei componenti, “uomini liberali quant’altri mai”.
 Quanto alla compatibilità di una legge eccezionale con le libere istituzioni la Commissione, tramite il relatore osservava che “lo stato di brigantaggio rende immagine dello stato di guerra, anzi è peggiore della guerra. Lo stato di guerra tra le nazioni civili non disconosce i diritti della umanità. La guerra ha le sue regole, ha le sue leggi. Coloro che ne trapassano i confini si rendono segno di riprovazione e di infamia; la pubblica opinione si solleva contro di loro e gli riconduce a più miti consigli. Per l’opposto i briganti non sono infrenati né dalla religione, né dalla morale, né dalla pubblica opinione, né dalla disciplina, né dalla legge, di cui sono una compiuta negazione”.
 Essendo quindi la situazione peggiore dello stato di guerra, in cui imperano leggi eccezionali, non vi era ragione ostativa alla introduzione di leggi eccezionali nello stato di brigantaggio, peggiore della guerra.
 Ancora più dichiaratamente il relatore spiegava che le nazioni si fondano sulla libertà per mezzo della libertà; “ma i generosi sentimenti debbono cedere il luogo in vista del bisogno urgente di ristabilire in alcune province la pubblica sicurezza”.
 Comunque la Commissione propose delle modifiche; il testo iniziale venne ridotto da 29 a 25 articoli. L’art. 1 fu modificato nel senso che la zona di applicazione della legge doveva essere indicata non con legge ordinaria ma con decreto reale, per evitare le lungaggini delle discussioni parlamentari e, da parte dei briganti, il trasferimento di province e di azione. Rimanevano fermi nel Titolo I° la istituzione, la composizione e i compiti delle Giunte di pubblica sicurezza, aggiungendo, a cautela della iscrizione negli elenchi dei briganti la stesura di un processo verbale delle dichiarazioni degli informatori (all’ascolto degli organi istituzionali fu aggiunto l’esame di testimoni); le liste furono integrate con quelle “degli oziosi, dei vagabondi e delle persone sospette secondo la designazione del Codice Penale, non che dè sospetti manutengoli e dè camorristi”.
 Fu previsto il domicilio coatto per due anni ai soggetti annotati nella predetta lista aggiunta.
 Fu proposta la abolizione dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 5 che prevedeva la fissazione di un premio per l’arresto, l’uccisione (per legittima difesa) di briganti, non essendo necessario che venisse stabilito per legge, potendosi aprire un credito di un milione sul bilancio del 1863 a favore del Ministero dell’Interno.
 Dall’art. 9 del Progetto (diventato articolo 11 della proposta di modifica) fu abolita la facoltà del Prefetto di ordinare il disarmo, perché avrebbe operato solo in danno dei buoni cittadini.
 Il Titolo II° (che nel testo modificato iniziava con l’art. 15 e finiva con l’art. 21) riguardante le fattispecie di reato di brigantaggio escludeva gli assecondatori e i favoreggiatori dalla previsione di reato, essendo la definizioni vaghe e generiche e quindi pericolose e comunque perché tali fatti ricevevano autonoma previsione nel Codice Penale.
 Veniva soppresso il capo 5 dell’art. 14 riguardante la presunzione del reato di brigantaggio a carico di evasi e disertori colti con armi proprie, essendo anche tale ipotesi delittuosa prevista dal Codice ed essendo risultato alla Commissione inaccettabile “elevare a presunzione legale assoluta, il fatto dell’evasione con arma”.
 Rimaneva confermata la pena della fucilazione alle spalle per i colpevoli che avessero opposto resistenza armata.
 Pur condividendo le questioni introdotte da Cesare Beccaria da oltre in secolo e auspicando la cancellazione dal Codice della pena di morte, la Commissione non riteneva di fare una eccezione a favore dei briganti.
 Veniva mantenuta l’esclusione delle attenuanti per i pubblici funzionari e ministri di culto perché vengono meno alla data fede, al giuramento e alla fiducia del Governo, in particolare i sacerdoti che esercitano un grande “influsso” sulle plebi “ignoranti” cessano di essere ministri di Dio e divengono ministri di satana.
 Veniva mantenuta la norma che autorizzava il sequestro dei beni.
 In riferimento alla competenza venne conservata quella dei Tribunali militari solo per i briganti presi con le armi alla mano; gli altri sarebbero stati giudicati dalle Corti di Assise.
 Da un punto di vista delle garanzie di diritto processuale la proposta (almeno formalmente) era migliorativa venendo esclusa la presunzione di responsabilità per gli iscritti nelle liste, con la eliminazione dell’art. 25 del Progetto.
 La legislazione premiale prevista dall’art. 22, che prevedeva la riduzione di pena agli iscritti nelle liste che avessero arrestato o ucciso un brigante fu soppressa sembrando alla Commissione “sconvenevole premiare l’uccisione o il tradimento”.
 La relazione concludeva con l’auspicio di una sollecita approvazione per dare sicurezza e pace alle popolazioni e credibilità alla reputazione del Parlamento.

V) L’APPROVAZIONE E LA PUBBLICAZIONE DELLA LEGGE “PICA”
 Il percorso ricognitivo fin qui compiuto, com l’esame diretto delle fonti (relazioni e allegati e testi di proposte di legge) mancando pubblicazioni di approfondimento della tematica normatica affrontata e della tecnica di legislazione adottata, rende comprensibili le ragioni, i contenuti e la portata della Legge “Pica” e la operazione di sintesi compiuta nel testo presentato dal proponente, consentendone una esegesi storico-giuridica degli istituti sostanziali e processuali introdotti.
 Intanto il motivo “politico” della proposta risiede nel rilievo che la discussione sui Progetti innanzi esaminati aveva assunto toni molto accesi, con evidenti segni di “trasversalità” politica, intrecciandosi oltre a ragioni che facevano capo agli schieramenti di maggioranza e di minoranza, di “destra” e di “sinistra”, quelle di cui erano portatori i Deputati che avevano operato per l’Unità della nazione e i rappresentanti dei Collegi dislocati nell’Italia meridionale, e questi ultimi, per contrapposte ragioni.
 Per cui con una soluzione “politica” il Governo, con il sostegno dei Deputati meridionali di maggioranza, si risolse a far presentare un nuovo Progetto di Legge.
 Giuseppe Pica (1813-1877) Deputato eletto nel Collegio di L’Aquila presentò il nuovo Progetto di Legge, sottoscritto da altri quarantuno Deputati che fu approvato con procedura di urgenza il 6.8.1863 e pubblicato in Torino il 15.8.1863, al n. 1409.
 Da un punto di vista redazionale il testo della Legge compiva una eccezionale sintesi dei precedenti Progetti innanzi esaminati, con una stringatezza di espressioni, riducendo gli articoli che la compongono dagli originari 29 del Progetto della Commissione d’inchiesta e i 25 della Commissione Parlamentare sull’esame del Progetto, a soli 9, con la eliminazione di premesse, Titoli e disposizioni transitorie.
 Il testo definitivamente approvato all’art. 1 stabiliva l’ottimistico termine di applicazione per la fine di dicembre del 1863; delegava la indicazione delle Province di applicazione a un decreto reale; lo stesso articolo 1 definiva il reato di brigantaggio, ritenendo applicabile la legge ai “componenti comitiva o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie e la campagna per commettere crimini e delitti”; attribuiva la competenza a giudicare ai Tribunali militari di cui al Codice Penale militare e con la procedura ivi indicata.
 Eliminando tutte le indicazioni sui compartecipi o sostenitori e le problematiche giuridiche connesse, si limitava a fare riferimento “ai complici” dei soggetti innanzi descritti con una espressione atecnica che poteva portare a una estesa applicazione interpretativa, potendosi ritenere come responsabili sia i concorrenti “interni” che “esterni” sia quanti altri avessero potuto conferire un apporto o un contributo ai componenti della comitiva o banda armata, non essendo formulata, a differenza degli originari testi, quali condotte penalmente rilevanti potessero attribuire la qualità di “complice”, che indicava un concetto diverso e più ampio di “concorrente”.
 L’art. 2 confermava la pena di morte ai colpevoli che avessero opposto resistenza armata alla forza pubblica, o quella dei lavori forzati a vita, concorrendo circostanze attenuanti; quest’ultima pena veniva applicata a coloro che non avessero opposto resistenza, ai ricettatori e somministratori di viveri, notizie e aiuti, e in caso di attenuanti, il massimo dei lavori forzati a tempo.
 Con quest’ultima disposizione veniva reintrodotta la figura del favoreggiatore che, come si è visto nel precedente capo, la Relazione al Progetto della Commissione Parlamentare che modificava in parte il Progetto di Legge della Commissione d’inchiesta, aveva escluso per esservi già la previsione normativa di tali fattispecie di reato nel Codice Penale; e, peraltro, le ipotesi delittuose di cui innanzi costituivano un titolo di reato diverso rispetto ai “complici” di cui all’art. 1; veniva sostanzialmente punita, come reato di “brigantaggio”, la condotta di ricettazione e favoreggiamento.
 Non veniva definito il genere e la specie delle attenuanti, né di natura soggettiva, né oggettiva, per cui si determinava una assoluta discrezionalità nella individuazione dei criteri applicativi.
 La legislazione “premiale” contenuta nell’art. 3 attribuiva a coloro che si fossero o che si costituissero nel termine di un mese dalla pubblicazione della legge la diminuzioone da uno a tre gradi della pena; l’art. 4 riservava al Governo la facoltà di abilitare alla volontaria presentazione anche dopo il predetto termine.
 Al Governo era riservata la facoltà di assegnare al domicilio coatto gli oziosi, vagabondi, persone sospette, così qualificati secondo i criteri stabiliti dal Codice Penale e ai camorristi e manutengoli, su parere della Giunta, composta da Prefetto, Presidente del Tribunale, Procuratore del Re e due Consiglieri provinciali: la violazione della misura veniva punita con le norme stabilite dal Codice Penale dal Tribunale ordinario competente.
 Il Governo poteva istituire compagnie di volontari, stabilendo i regolamenti e l’uniforme; sostanzialmente era un corpo speciale para-militare.
 La Legge non attribuiva i particolari poteri assegnati alle Giunte dalle precedenti proposte normative e, soprattutto, quello di comporre le liste di briganti, conferendo alla iscrizione la presunzione di responsabilità.
 Riconosceva il diritto a pensione per le ferite ricevute in servizio per la repressione del brigantaggio, anche alle compagnie di volontari.
 Con il conclusivo art. 9 stabiliva un milione nel capitolo di Bilancio per il 1863, a disposizione del Ministero dell’Interno.
 La Legge approvata dal Senato il 6.8.1863 fu pubblicata il 15.8.1863: solo il 19.8.1863 furono resi pubblici gli Atti della Commissione d’inchiesta che avevano dato luogo ai precedenti progetti di legge, senza però che venissero divulgati neppure tra i Parlamentari.
 Alla essenzialità della Legge, che conferiva ampi spazi di interpretazione e quindi di applicazione sia al Governo, in riferimento alle misure preventive, che ai Tribunali militari, quanto alla individuazione delle condotte concretizzanti i reati di nuova introduzione, fece seguito la prevista durezza della attuazione.
 Uno dei più rilevanti problemi che pone la Legge Pica alla coscienza giuridica (sicuramente non insensibile all’epoca, anche per la presenza in Parlamento di illustri giuristi) risiede nella sua applicazione retroattiva a fatti già commessi (come è stato già notato, così avvenne di fatto, anche se la Legge Pica non riproponeva l’art. 28 delle disposizioni transitorie del primo Progetto della Commissione di inchiesta che prevedeva che gli imputati, “qualora abbiano delinquito prima della pubblicazione della presente legge, non saranno puniti con le pene riportate dalla medesima, ma con quelle vigenti al tempo del commesso reato”); tale aspetto significativamente negativo si coglie indirettamente nel testo di Legge, ma è palese nelle sentenze di condanna che la applicarono emesse dai Tribunali  militari con procedure rapide e sommarie ed esecuzioni immediate, oltre che con limitazione dei diritti di difesa, che veniva affidata normalmente a difensori di ufficio individuati tra i militari stessi.
 Senza la adozione di una disciplina transitoria furono irrogate le nuove pene previste dalla Legge Pica anche a fatti di reato di brigantaggio precedenti la sua approvazione e pubblicazione.
 Il Regio Decreto 20.8.1863 stabilì che le Regioni alle quali si applicava la Legge 15.8.1863, n. 1409 erano: Basilicata; Abruzzo Citeriore; Abruzzo Ulteriore; Sannio; Calabria Citeriore; Principato Ulteriore; Terra di Lavoro.
 La Legge ebbe anche la funzione di limitare il fenomeno della autonomia e anarchia nei metodi repressivi adottati in concorrenza tra Prefetture, Commissioni e Comandi Generali di truppe militari, che tra delazioni, uccisioni, devastazioni aveva dato luogo a una vera e propria guerra civile e di affiancare alla azione militare, che finiva con l’alimentare il brigantaggio, una pressione poliziesca che tagliava i  i collegamenti di solidarietà, materiale e morale, con familiari e amici; secondo alcuni “per quanto arbitraria, questa legge si rivelò tuttavia efficace”.
 In realtà eliminò le conseguenze, ma non le cause di quel disagio che prese poi il nome di “questione meridionale”.
 Andando oltre le previsioni la Legge rimase in vigore fino al 31.12.1865 e l’apparato militare antibrigantaggio fu smobilitato nel 1870.
 In effetti alla metà degli anni sessanta si era chiusa la vicenda del brigantaggio, rudimentalmente strutturato in forma militare (del resto vi era la partecipazione di ex soldati e ufficiali borbonici), quale minaccia politica e militare per lo Stato unitario e vennero a mancare le componenti “politiche” del fenomeno connesse anche al cambiamento di regime; nella seconda fase prevalse una attività di comune banditismo, cessando di costituire una lotta civile contro i settentrionali invasori e oppressori. 


VITTORIO EMANUELE II

Per grazia di Dio e per volontà della Nazione

RE D’ITALIA

 Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato.
 Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:
 Art. 1. Fino al 31 Dicembre corrente anno, nelle Provincie infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con Decreto Reale, i componenti comitiva o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici saranno giudicati dai Tribunali militari, di cui nel Libro II, parte II del Codice penale militare, e con la procedura determinata dal Capo III del detto libro.
 Art. 2. I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali a mano armata oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti colla fucilazione, e coi lavori forzati a vita concorrendovi circostanze attenuanti.
 A coloro che non oppongono resistenza, non che ai ricettatori e somministratori di viveri, notizie ed aiuti di ogni maniera, sarà applicata la pena dei lavori forzati a vita, e concorrendovi circostanze attenuanti, il maximum dei lavori forzati a tempo.
 Art. 3. Sarà accordata a coloro che si sono già costituiti o si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione della presente Legge la diminuzione da uno a tre gradi di pena.
 Tale pubblicazione dovrà essere fatta per bando in ogni Comune.
 Art. 4. Il Governo avrà pure facoltà, dopo il termine stabilito nell’articolo precedente, di abilitare alla volontaria presentazione col beneficio della diminuzione di un grado di pena.
 Art. 5. Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, non che ai camorristi, e sospetti manutengoli, dietro parere di Giunta composta dal Prefetto, dal Presidente del Tribunale, dal Procuratore del Re e di due Consiglieri provinciali.
 Art. 6. Gli individui, di cui nel precedente articolo, trovandosi fuori del domicilio loro assegnato, andranno soggetti alla pena stabilita dall’alinea 2 dell’art. 29 del Codice penale, che sarà applicata dal competente Tribunale circondariale.
 Art. 7. Il Governo del Re avrà facoltà di istituire compagnie o frazioni di compagnie di volontari a piedi od a cavallo, decretarne i regolamenti, l’uniforme e l’armamento, nominare gli ufficiali e bassi ufficiali ed ordinarne lo scioglimento.
 I volontari avranno dallo Stato la diaria stabilita per i militi mobilizzati; il Governo però potrà accordare un soprassoldo, il quale sarà a carico dello Stato.
 Art. 8. Quanto alle pensioni per cagione di ferite o mutilazioni ricevute in servizio per la repressione del brigantaggio, ai volontari ed alle guardie nazionali saranno applicate le disposizioni degli articoli 3, 22, 28, 30 e 32 della Legge sulle pensioni militari del 27 giugno 1850. Il Ministero della Guerra, con apposito Regolamento stabilirà le norme per accertare i fatti che danno luogo alle pensioni.
 Art. 9. In aumento del capitolo 95 del Bilancio approvato pel 1863, è aperto al Ministero dell’Interno il credito di un milione di lire per sopperire alle spese di repressione del brigantaggio.
 Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserita nella Raccolta ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come Legge dello Stato.
 Data Torino, addì 15 agosto 1863.

                             VITTORIO EMANUELE

                                      U. PERUZZI.

3 commenti:

  1. La sintesi
    La Legge “Pica” contro il brigantaggio scaturì da una commissione di inchiesta Parlamentare, costituita il 22.12.1862 su richiesta del deputato Ferrari che sostenne la necessità di individuare cause e rimedi alla guerra civile nel Mezzogiorno, alimentata da errate politiche di moderati e Governo. Nelle discussioni parlamentari vennero denunciati episodi di ferocia dei comandi militari contro il brigantaggio. Le prigioni erano inumane: vietate le visite dei familiari, degli avvocati, vietato scrivere e leggere; delinquenti comuni mischiati con detenuti politici, sacerdoti, militari, gente di ogni condizione sociale ed età, parenti o conoscenti di presunti briganti. Si denunciò come il fenomeno del brigantaggio fosse determinato e alimentato anche dalla miseria dei contadini. “Alla comparsa dei briganti, il popolino insorgeva spesso facendo piazza pulita di autorità, polizia e “galantuomini” e accoglieva le bande da “liberatrici” con feste e Te Deum”.
    Il progetto di legge presentato dalla Commissione di Inchiesta stabiliva la competenza del Parlamento per individuare le zone interessate dal brigantaggio, istituiva la Giunta Provinciale di Pubblica Sicurezza con il compito di formare le liste dei briganti. La iscrizione costituiva presunzione di complicità nel reato di brigantaggio e comportava il sequestro dei beni. L’art. 5 sospendeva ogni garanzia personale prevedendo l’arresto degli iscritti nelle liste da parte di chiunque e compensi in denaro per gli esecutori anche se uccidevano il brigante.
    Il Prefetto su proposta della Giunta poteva chiudere industrie e masserie, sospendere sindaci, militi e guardie nazionali, confinare persone sospette: un vero “stato di polizia”.
    Si istituiva il reato di brigantaggio per partecipazione o temporanea adesione a comitive o bande armate, favoreggiamento dei briganti, alloggio, lettere e per gli evasori e disertori armati.
    La sanzione proposta per i colpevoli che opponevano resistenza armata era la fucilazione; gli altri venivano puniti con la deportazione a vita o a tempo. Venivano previsti premi agli imputati pentiti, per quelli già costituiti o che si fossero costituiti. La competenza a giudicare gli imputati veniva attribuita ai Tribunali militari.

    Nella fase di modifica del progetto di legge, si affermava la necessità di una legge speciale e si considerava lo stato di brigantaggio peggiore di una guerra. Rimanevano fermi i compiti delle Giunte di pubblica sicurezza, si mitigava l’iscrizione negli elenchi mediante un processo verbale con dei testimoni: Le liste venivano integrate con quelle di oziosi, vagabondi e camorristi da inviare a domicilio coatto per due anni. Veniva soppresso il reato a carico di evasi e disertori armati. Rimaneva confermata la pena della fucilazione per i colpevoli che avessero opposto resistenza armata.
    Veniva mantenuta l’esclusione delle attenuanti per i pubblici funzionari e i sacerdoti, la norma per il sequestro dei beni e soppressa la riduzione di pena per chi avesse arrestato o ucciso un brigante.

    Il nuovo Progetto di Legge fu approvato il 6.8.1863 e pubblicato il 15.8.1863. Il testo fu ridotto all’essenziale con lo svantaggio di conferire ampi spazi di interpretazione e applicazione a Governo e Tribunali. Furono emesse sentenze di condanna anche retroattive, rapide e sommarie con esecuzioni immediate, limitando i diritti della difesa affidata a militari.
    Le Regioni investite dal provvedimento furono Basilicata, Abruzzo, Sannio, Calabria, Principato, Terra di Lavoro.
    La legge eliminò le conseguenze del brigantaggio, ma non le cause di quel disagio che prese poi il nome di “questione meridionale”. Essa rimase in vigore fino al 31.12.1865, l’apparato militare antibrigantaggio fu smobilitato nel 1870. Alla metà degli anni sessanta si era chiusa la vicenda del brigantaggio, come struttura militare con soldati e ufficiali borbonici, minaccia per lo Stato unitario e inteso come lotta civile contro i settentrionali invasori e oppressori. Nella seconda fase prevalse un’attività di comune banditismo.

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    1. Mi scuso con l'avvocato Conte, ma per stare nei 4093 caratteri, compresi gli spazi, consentiti per ogni commento, è stato necessario tagliare molto per ricavarne meno di una pagina su 8 del testo base. E forse qualche concetto è saltato.
      Alla fine non c'era più margine al punto che non è stato possibile dare un titolo più chiaro.

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