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NOTA SU GIUSEPPE ANTELMY

DOMENICA 9 FEBBRAIO 2014
Nell'anno appena passato ricorreva il 250° anniversario della nascita di Giuseppe Antelmy, giurista nostro concittadino, sulla figura, funzioni e opera politico-letteraria del quale.
 Qualche anno addietro inviai una lettera alle Istituzioni proponendo la celebrazione, attraverso un Convegno di Studi, dell'illustre Personalità e la ripubblicazione della sua Opera, della quale tratta le mie note; ritengo opportuno ripetere, attraverso il Tuo blog, la proposta, sperando in una Tua condivisione della stessa, per l'importanza, per la nostra Città della persona del giureconsulto Antelmy e del contenuto (per molti aspetti, come leggerai, profetico e moderno) della sua opera.
 Grazie e cordialità.
 Augusto Conte.
GIUSEPPE ANTELMY
(Ceglie Messapica 7.11.1763/2.12.1851)
di Augusto Avv. Conte
  Sfogliando la nota opera di Giacomo Arditi sui Comuni salentini (ARDITI. Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, 1879-1885), nell’ambito della trattazione del Comune di Ceglie Messapica appresi che Giuseppe Antelmy, la cui fama di giureconsulto era stata consegnata alla posterità dal pronipote Rocco, pure Avvocato, aveva pubblicato nel 1807, in Napoli, il saggio “SORGENTI della vera gloria e del potere del Governo relative alla felicità dei popoli” (Stamperia di Domenico Sangiacomo, Largo San Giuseppe dè Russi, n. 15, Napoli). L’Arditi, che sicuramente aveva consultato l’opera, avendo riportato il titolo (in verità al posto della parola “Governo” aveva scritto, probabilmente per un refuso, la parola “Sovrano”), oltre all’anno di pubblicazione, all’Editore e alla sua sede, scriveva a proposito dell’Autore:  “.....fu dotto giurista, appartenne a diverse Accademie scientifiche e letterarie nazionali e straniere”.
 Rocco Antelmy (Ceglie Messapica 20.4.1834/6.2.1917) nel suo manoscritto pubblicato a oltre cinquanta anni dalla sua morte, e da lui stesso intitolato “CEGLIE MESSAPICO - Accenni alla sua antichità”, a proposito della sua passione per l’archeologia, scaturita dal rinvenimento di reperti di epoca messapica che animarono la Città nella seconda metà dell’’800, scrive “...aumentavo ed arricchivo il mio piccolo museo, che mi lasciava in legato insieme alla sua libreria quella cima d’uomo che fu il giureconsulto Giuseppe Antelmy mio prozio paterno”. Il manoscritto era dedicato “...alla venerata memoria del giureconsulto Giuseppe Antelmy mio prozio paterno il quale fu uno di quegli uomini illustri che senza ambizione e senza cupidigia intesero solo a rendersi utili ai loro simili.....Con la sua influenza e con la sua persuasiva parola facea cessare le liti riconciliando gli avversari che si recavano da lui per avere lume e consiglio, perocchè egli, oltre ad essere uomo di vasta e profonda dottrina, era pure insigne giurisperito; e così salvava tante famiglie da imminente rovina; e per ricompensa si aveva la gratitudine e la venerazione di tutto un popolo, tanto chè il suo nome è ricordato sempre e benedetto”.

 Grande è stata la mia emozione, pari a quella di Rocco Antelmy di fronte ai ritrovamenti archeologici, quando presso una amica famiglia gentilizia di Ceglie Messapica ho rinvenuto i due Tomi dell’Opera che mi sono stati messi a disposizione.
 Nè l’Arditi, nè il nipote Rocco avevano fatto esplicito riferimento a una funzione svolta da Giuseppe Antelmy; l’altro evento che mi era già capitato di vivere era stata la scoperta delle prime due sentenze pronunciate dal Giudice di Pace di Ceglie (non ancora Messapico) nel 1813, entrambe sottoscritte Giuseppe Antelmy (e da me pubblicate nelle mie “NOTE STORICHE sulle Istituzioni Giudiziarie di Ceglie Messapica - Schena Editore, 1994) che ha così iscritto il suo nome nella storia giuridica del nostro Paese; il Giudice di Pace era stato introdotto nel Regno di Napoli da Giuseppe Bonaparte con la Legge 20.5.1808, n.140 sull’Ordinamento Giudiziario (Bullettino delle Leggi del Regno di Napoli, n.36 del 1808); la legge istituì il “Ripartimento” del Giudice di Pace e fu messa in esecuzione da Gioacchino Murat, subentrato quale Re di Napoli al cognato il 6.9.1808: i Giudici di Pace si insediarono nel 1809 e con tale nome rimasero fino alla Restaurazione borbonica che mantenne l’Istituzione, modificando con la riforma del 1817 il nome in Giudice del Circondario con alcune modifiche sulla competenza.
 Il Giudice di Pace, come stabilito dal Decreto n.26 del 23.1.1809, “contenente il metodo per le future nomine del giudice di pace” era di carica elettiva, essendo nominato dai Decurioni (Amministratori Municipali: il Decurionato con la restaurazione fu abolito e fu ripristinato il Senato), e durava in carica tre anni con possibilità di rielezione; aveva competenza in materia civile e penale; era anche giudice di polizia (Art. 11, Legge 20.5.1808, n.140: “Il giudice di pace procura di spegnere le risse e le inimicizie e di prevenire ogni sorta di delitti.”). La sua retribuzione era così stabilita dall’art. 26 della predetta Legge: “Oltre il loro soldo i giudici di pace hanno un premio per ogni lite che riesce loro di conciliare. Il premio è un mezzo per cento della cosa controversa, da pagare dalle parti a rate uguali. Qualunque sia il valore, il permio non eccederà mai la somma di ducati cento nè sarà minore di un ducato”.
 Il Regolamento della Legge n.140, emanato con il successivo Decreto n.141 dello stesso 20.5.1808 fissava le norme procedurali; il Giudice di Pace aveva funzioni anche di arbitro e amichevole compositore essendo la sua una figura intermedia tra l’arbitro e il giudice; va ricordato che la componente arbitrale era molto forte: l’art. 1 della Legge 20.5.1808, n.140 solennemente affermava che la giurisdizione è volontaria (e rimessa agli arbitri) o necessaria (e rimessa ai giudici).
 Per i Ripartimenti nei quali non vi era un Giudice di pace supplente il Decreto n.1025 del 17.8.1811 “per far bisogno supplire le funzioni di Pubblico Ministero nelle giustizie di pace”, attribuì le funzioni di P.M. di udienza al Sindaco o, in mancanza, al primo eletto dei Decurioni del Comune.
 Il trattato di Giuseppe Antelmy ha titolo per essere segnalato per la ricordata funzione di giudice dell’Autore, ma soprattutto per la spinta di modernità e di riforma che l’opera dovette spiegare - e può ancora oggi influire - nell’ambito della politica della giustizia e della legislazione e, come vedremo, nella svolta riformatrice impressa dalle leggi eversive della feudalità (in dissenso con principi espressi da Montesquieu) e dalla introduzione nel Regno di Napoli, oltre che in altri Stati preunitari, della legislazione francese e soprattutto del Code Civil: sì che il Regno di Napoli anticipò, sotto il piano normativo e sociale con l’introduzione del diritto civile, come l’Opera di Antelmy attesta, gli effetti dei principi rivoluzionari che circolarono con la penetrazione francese, e che sotto l’aspetto politico e pubblico nel territorio “italiano” iniziarono a manifestarsi e ad attuarsi con il Risorgimento nel 1848, attraverso l’introduzione delle Costituzioni politiche.
 Il lavoro, composto di due Tomi costituisce opera di grandissimo valore, di grande modernità e, per alcuni aspetti, di attualità, è, a mio giudizio, chiaramente ispirato allo stile del “CONTRATTO SOCIALE” di Rousseau (più volte citato e con il quale Antelmy è spesso in dissenso) e, come quest’ultima opera è denso di citazioni storiche che rivelano le cognizioni enciclopediche dell’Autore (del quale l’Arditi scrive che un’altra sua opera inedita andò perduta).
 Nella Prefazione del Tomo I° l’Autore esordisce con l’affermare che stabile fondamento della vera gloria dei Principi e dei Governi non sono le magnificenze delle statue e degli edifici, il lusso di archi non meritati, i prosperi successi di guerre ingiuste, le capricciose e vane ostentazioni, ma la felicità dei popoli, per la quale furono persuasi Cadeo, Licurgo, Solone, Charonda, Zeleuco, Tito, Nerva, Trajano, Marco Antonio, Marco Aurelio, “per l’umanità e per la giustizia sì gloriosi ai popoli”. La vera gloria è costante e indivisibile compagna dell’inalterabilità del potere dei governi che possono acquistarla favorendo la felicità dei cittadini che rendono ai governi sincero amore, rispetto e venerazione.
 La felicità dei cittadini consiste nel poter senza molti stenti provvedere ai propri e ai bisogni della famiglia, nel trovare occupazione, nell’avere costumi virtuosi e nel veder protetta la proprietà; al benessere contribuiscono la popolazione, le arti, il commercio, le ricchezze, il peso prudente dei tributi. E, ancora, la Religione, i costumi, l’educazione pubblica e privata, le lettere, i Magistrati, l’abolizione del sistema feudale, la guerra e la legislazione regolate coi lumi della più sana e ragionevole politica rendono onesti i cittadini e mettono al coperto di qualunque offesa alla proprietà. “Nella Prima, e nella Seconda Parte della presente opera si tratta precisamente di cadauno di quegli oggetti”.
 E, infatti, nella Parte I^ l’Autore inizia la trattazione con il tema della Popolazione che deve essere estesa e fondata sulle nozze; la popolazione si forma dalla unione e concordia di più famiglie aventi gli stessi scopi; dalle nozze dipende la tranquillità dello stato e la certezza delle famiglie. Il benessere è in funzione dell’aumento della popolazione, il cui progresso è accresciuto dall’agricoltura, dalle arti, dal commercio a cui pone freno il mal costume, lo sproporzionato peso dei tributi, i maggiorati, i fedecommessi e la successione dei Feudi.
 La Chiesa deve esercitare solo una forza spirituale mentre i matrimoni devono essere regolati da leggi civili.
 Il trattato prosegue con l’illustrazione delle origini e dei progressi delle arti, delle industrie e dell’agricoltura; l’Autore distingue le arti in primitive, secondarie e di lusso, a seconda del grado di necessità che soddisfano. L’agricoltura è indicata per quel momento storico come la maggiore ricchezza dei cittadini per rendere florido lo Stato; la sua decadenza è rovina per tutte le arti.
 Mezzi favorevoli per il suo incremento e per aumentare il numero dei proprietari sono l’abolizione dei maggiorati e fedecommessi, l’ordine a Preti e Monaci di concedere i propri beni, nazionalizzati, in enfiteusi ai cittadini; l’imposizione ai feudatari, ove si volessero “per infelici circostanze”, salvare i feudi, di affittare le selve; la riduzione delle decime e l’abolizione della “fida” (che si esige per l’erbaggio allorchè si conceda il pascolo sulle terre); l’imposizione di giusti tributi; l’impegno dei governi acchè i proprietari siano agricoltori.
 In agricoltura va incentivata la produzione di grano, di olio (le viti vanno selezionate, non incrementate) di cotone, di seta, di patate, specie in provincia di Lecce, Basilicata e Bari.
 Le arti giovano al progresso e nobilitano e ingentiliscono i costumi; con le arti si costruiscono legni (navi), si cavano metalli dalle voragini; le belle arti quali la meccanica, il disegno e l’architettura risvegliano e promuovono i virtuosi costumi, l’onore della gloria e delle lettere.
 Il commercio sviluppa le facoltà intellettive, contrariamente al pensiero di Platone che lo riteneva corruttore di costumi all’uso dei Romani che lasciavano la navigazione e i commerci agli schiavi, ai liberti, ai provinciali e di Licurgo che a Sparta proibì i commerci. Favoriscono i commerci l’abolizione di dogane (sistema “pernicioso” introdotto da Ottaviano Augusto) e la costruzione di strade, la buona fede nei commerci: “...il commerciante deve servire allo Stato e non questo a quello”.
 Trattando della corruzione dei costumi Antelmy spiega, con riferimenti a Plutarco, a Seneca, ad Aristotele, che le ricchezze rappresentative non sono utili al bene pubblico e corrompono i costumi e rovinano gli imperi. Popoli ricchi come quello di Francia, Egitto, Tiro, Sidone, Rodi, Venezia e Genova furono abbattuti da popoli barbari e poveri; i Romani poveri umiliarono la ricca Cartagine; devono essere accresciute le ricchezze primitive e non quelle rappresentative che sono causa di vizi. “Le ricchezze che gli Ateniesi ammassarono per le vittorie di Cimone, figlio di Milziade, produssero subito in Atene la ruinosa corruzione dei costumi, dalla quale solamente il giusto Aristide e lo stesso Cimone non furono attaccati.....I Paesi furono saccheggiati dai Tartari Abbassiti nel Sec. XIII.....Le ricchezze giunte a Roma da Cartagine, Macedonia, Asia Minore, la resero mal costumata e prepararono la sua rovina.....I virtuosi Spartani furono corrotti dal felice esito della guerra nel Peloponneso”.
 Solo le ricchezze conquistate con l’agricoltura, le arti, il commercio, e quindi con l’impegno, non corrompono i costumi “se non col tempo, o per trascuraggine o per ignoranza del Governo”. Senza la saggezza e la prudenza dei Governi le ricchezze introducono la non curanza delle leggi e della giustizia; formano da una parte pochi ricchi, con “lucro insultante” e dall’altra molti poveri e stabiliscono il “tristo impero dell’ozio e della noja”. Licurgo per screditare le ricchezze rappresentative introdusse le monete di ferro invece di quelle di oro e di argento.
 Per la circolazione e la distribuzione della ricchezza occorre accrescere il numero dei proprietari, promuovere arti e manifatture nazionali, il commercio interno ed estero, una pronta amministrazione della giustizia e l’esatta osservanza delle leggi.
 Il lusso eccessivo va vituperato; quello moderato fa aprire gli scrigni ai ricchi, accresce l’industria, raffina le arti, promuove l’agricoltura, rimuove l’indecenza. E, inoltre, fa crescere l’impegno dei cittadini, stimola nuovi desideri creando nuovi piaceri perchè “lo spirito umano senza piaceri è senza risorse, ed il piacere è la causa motrice dell’umanità”. Rousseau ritiene abominevole il lusso, che corrompe i costumi: ma “con di lui buona pace” non distinse tra le specie di lusso, infatti è il lusso eccessivo a creare disgrazia e infelicità dei popoli.
 David Hume correttamente distingue il lusso innocente da quello immoderato e vizioso. “Locri per bandire l’eccessivo lusso delle donne e di alcuni uomini, ordinò che non si caricasse la donna di gioielli, nè di stoffe dipinte, purchè non facesse di mestiere la cortegiana”. (forse a questo regime è dovuto il fatto che le donne calabresi e meridionali in genere vestivano di nero, anche per non alimentare equivoci!).
 Pure Montesquieu concorda nell’affermare che non è il lusso che corrompe i costumi, ma è il mal costume che altera e corrompe il lusso. Il lusso a Roma dopo la conquista di Cartagine (che Scipione, a differenza di Catone il Censore e del Senato Romano non voleva distruggere ritenendo la città, quale rivale degna di Roma, ostacolo al torrente dei vizi) portò odio, perfidia, raggiro, sostituzione del particolare interesse al pubblico bene: “La giustizia tanto cara agli antichi romani s’incominciò a vendere nè Tribunali”.
 A proposito dei Tributi (trattati nell’Articolo IX) l’Autore premette: “Rinunciando il cittadino allo stato d’indipendenza, e della libertà naturale, ch’è illimitata, e svantaggiosa, gode della civile nello stato socievole: in questo è egli sicuro della vita, e gode tranquillo a suo talento dè propri dritti, purchè non offenda gli altri”. Così gli uomini, pur diseguali per natura riguardo al talento e alla forza divengono “moralmente uguali”. Ma il Governo ha bisogno di mezzi per sostenere una forza armata e per procurare quiete e pace.
 Può dunque imporre Tributi e i popoli devono essere “contenti di contribuire con porzione della di loro rendita per godere tranquillamente del rimanente”; deve contribuire di più chi riceve maggior vantaggio dalla protezione. Il Governo non deve opprimere con “dazj” eccessivi che sono di ostacolo all’industria, al commercio, portano alla miseria e all’avvilimento e il Governo alla rovina: “La ragione e la giustizia condannano la sproporzione delle contribuzioni”.
 Alfonso Re di Spagna affermava: “Io temo di più le lagrime dè miei popoli, che le forze dè miei nemici”. Tiberio, in risposta ai Presidi delle Province che l’animavano ad accrescere le somme delle imposizioni rispose, come attesta Svetonio: “Il buon pastore tosa, e non già scortica le sue pecore”. Lo sproporzionato peso dei tributi rende pigri i cittadini e li costringe a mostrarsi infedeli. Carlo V° affermò: “Dopo aver sconfitto i Turchi non abbiamo altro pensiero, che di liberare i nostri sudditi di questo Regno delle Due Sicilie da tutte le oppressioni, estorsioni, ed indecorose esazioni. (Pragmatica Carlo V°, inter. Cost. Reg. Sic. pag. 525)”.
 Bisogna escludere dalle esazioni i pubblicani (appaltatori) e affidare agli amministratori delle università, come persone accreditate, il compito di esigere le contribuzioni. Antelmy plaude alla legislazione del 2 agosto e dell’8 novembre 1806 che aveva abolito ingiuste imposizioni dimostrando l’impegno, la vigilanza e la sollecitudine del Governo per la pubblica proprietà, augurandosi che gli esecutori non ingannino la fiducia del Sovrano (Giuseppe Bonaparte).
 Il Tomo II° dell’opera si apre con la trattazione della questione sulla religione e con l’affermazione che “...le leggi civili, benchè savie, e prudenti non influiscono molto sul bene dello Stato senza l’ajuto della Religione. Non hanno quella tanta forza, che contengono sempre il cittadino nè limiti del giusto, e dell’onesto, se manchi l’idea dell’Essere Supremo, che felice sorgente di tutte le cose, punisce, e premia nell’altra vita...I Magistrati prevengono è vero alcuni delitti; la Religione li proibisce tutti alle coscienze”.
 E’ l’abuso della religione a costituire sorgente di male. “Sacerdozio e imperio sono due cose distinte, presiedendo uno alla religione, l’altro alla società civile”. I concetti espressi da Antelmy anticipano di decenni le idee dello stato liberale e di Camillo Benso, conte di Cavour; comunque egli ritiene che “...la Cristiana Religione colle sue sante massime,  e coi più puri precetti è uniforme alla ragione, più confacente allo Stato, e più atta a mantenere nella società l’amore e la pace... Al Cristianesimo, dice lo stesso Rousseau in una nota dell’Emilio, deono i governo d’oggigiorno la di loro più ferma autorità e le rivoluzioni meno frequenti”; la religione del Vangelo per Rousseau è sublime ed umana. La Religione Cristiana, ispirata al reciproco amore aiutò i Governi a diventare più amici dei popoli e questi più attaccati a quelli “...il diritto delle genti divenne più umano e manco fiero”. La Religione però non può essere imposta con la forza, nè con le guerre di religione, nè con l’inquisizione.
 L’Educazione, pubblica e privata, inizia con l’impegno dei genitori che devono educare i figli con saggezza e prudenza, per renderli utili alla famiglia e vantaggiosi alla patria, imprimendo “...nè teneri petti dè giovini, le virtù politiche e morali”. Socrate nella Ciropedia dimostra che i difetti degli uomini “...non tanto nascono dal di loro cattivo naturale, quanto dalla male direzione di coloro cui sono soggetti”. Il Governo deve avere cura e impegno di procurare ai popoli una savia e utile educazione. L’educazione privata dei padri deve conciliarsi con quella delle pubbliche istituzioni, per realizzare il detto persiano secondo il quale “se voi volete esser santo, cioè virtuoso, istruite i vostri figli, perchè tutte le buone azioni vi saranno imputate”.
 “Demostene non ebbe dalla natura veruna qualità, che il rendesse abile, ed idoneo all’esercizio di oratore; ma spinto dall’ardente desiderio di divenirlo si rese uno dè più eccellenti, e rinomati oratori di Atene”.
 Trattando dei Costumi l’Autore afferma che principio di tutte le virtù civili è l’utilità pubblica; la floridezza dei popoli dipende dai costumi virtuosi che procurano l’osservanza delle leggi e dei propri doveri. “Dove si introducono virtuosi costumi poche e semplici leggi sono sufficienti”; valendo più delle stesse leggi: “I costumi e non le leggi, diceva Socrate, sono i mezzi a ben dirigere lo Stato”. Presso gli Sciti e i Germani “...i costumi avevano forza e prendevano il luogo della legge...”
 I buoni costumi bandiscono violenze e usurpazioni e rendono stabile la concordia e la pace dei popoli, e rendono inviolabili e sacri i trattati. Atene, Roma, Cartagine, depravati e corrotti i costumi, subirono decadenza. “Depravati e corrotti i costumi i giudici conculcano le leggi a seconda delle ree pressioni”. Vi è indissolubile unione tra virtù e felicità secondo anche il pensiero di Socrate, Platone, Zanone, Epicuro e gli Stoici: deve quindi essere insegnata la filosofia morale. Occorre la denuncia pubblica e privata dei cittadini: ovviamente va punita severamente la calunnia, come ritenevano Demostene nel Theocrinem e nel Midiam, Antocidide nel de Ministeriis, Socrate in Oratione de Antidosi; in Roma il virtuoso accusatore era premiato (Cicerone in de Divinis, cap.20; in pro Caelio, cap. 7 e 30). “L’istesso giudice nè giudizj straordinarj era pure condannato alla pena del taglione (la stessa pena applicata al condannato), se si scovriva dolosa, e manifesta la calunnia”. La calunnia era punita dagli Egizi (Diodoro, lib. I°, pag. 38); dalle leggi Saliche, dall’Editto di Teodorico; dal Codice dei Visigoti; dal Codice degli Alemanni.
 Per mantenere buoni i costumi occorre coniugare l’interesse particolare con quello pubblico; i castighi e le pene non recano alcun vantaggio alla bontà dei costumi allorchè sono eseguiti tardi; in tal caso le pene non recano “sgomento”, ma eccitano pietà e comprensione, “...la legge criminale, è vana ed il delinquente soffre indarno il castigo..... Il reo non si punisce per fargli sentire le tristi angoscie di un orrendo carcere, o i terribili, ed anticipati dolori della morte: la legge essendo senza passioni non punisce per vendetta, ed odio.....Niuno prudente punisce, dice Platone, perchè è peccato, ma acciò non si pecchi.....Il piccolo intervallo che passa tra ‘l delitto, e la pena, accresce l’orrore per questa, e toglie la compassione pel reo, che ancor si odia.....Le pene però correggono, ed istruiscono gli altri, purchè quelle siano eseguite sul luogo del delitto”, come ordinarono i Romani.
 Antelmy ritiene che i teatri, che potrebbero essere scuola di virtù e stimolo di arti e scienza, purtroppo depravano i costumi; invano si rappresentano personaggi illustri, inutilmente Racine, Voltaire, Metastasio si affaticano a mettere in disprezzo il raggiro, la frode, l’avarizia, l’ingiustizia, e a dare lustro alle virtù o a rendere abominevoli i vizi: il ridicolo e la scompostezza rovinano tutto e non opera nessun effetto positivo negli uomini che vanno a teatro per passare il tempo; al contrario, alcune commedie insegnano la frode, l’inganno e mettono in ridicolo la virtù.
 I legislatori Spartani proibirono l’uso di commedie e tragedie per non corrompere gli animi con le immagini di ciò che la legge condanna e con sentire l’apologia delle più insane e feroci passioni. Invece in Atene gli attori erano cittadini di primo rango: e allora, deve essere eliminata la denigrazione della reputazione dei comici che devono rappresentare opere che mettano in ridicolo i cattivi costumi, le opinioni stolte.
 Ai virtuosi costumi è di danno il gran numero di celibi che “...seducono le altrui mogli e corrompono le donzelle”; le conquiste che creano ricchezze alterano i virtuosi costumi, così come la ingiusta distribuzione dei premi.
 Le Lettere procurano tranquillità e floridezza dei popoli: la potenza civile deve unirsi alla filosofia in modo che i ministri siano savi e prudenti; l’ignoranza e la barbarie conducono al dispotismo. “Ai felici progressi delle lettere si deve la storia dei popoli...,la Storia è scuola della politica”. Le Lettere favoriscono lo studio e incrementano le arti, le industrie, i trasporti, terrestri e marittimi. “Le Lettere sono causa che si renda eterna la gloria dei suoi governi.....Rousseau e altri filosofi si scagliarono contro le lettere; avrebbero dovuto scagliarsi contro chi abusò di quelle”.
 Stimolo a coltivare le lettere sono quelli che non possono agiatamente vivere. “La povertate, o Diofanto, solo la povertate l’arti risveglia e mostra” (Teocrito). “Chi si applica alle lettere sacrifica altri piaceri allo studio e se soffre la pena della meditazione è animato da più sensibili piaceri o dalla necessità di sottrarsi dal giogo penoso della miseria”.
 Democrito, Eraclito, rinunciarono alle ricchezze per applicarsi agli studi filosofici; Eraclito cedette al fratello il trono di Efeso. Il celebre Csar Pietro I° e Caterina II^ di Russia istituirono riconoscenze e premi per favorire le lettere tra i Russi. Marco Aurelio piangeva quando vedeva premiare un buffone o un comico anzichè un filosofo, un giureconsulto, un oratore. Carlo Magno fondò l’Accademia di Parigi e di Pavia e ristabiliì quella di Bologna; Federico II° istituì l’Università di Napoli.
 Antelmy a questo punto elogia i Napoletani, che gli avevano dato ospitalità, affermando che il cielo allegro sotto cui sono situati e il clima temperato li favoriscono di un “ingegno penetrante e vivace”. “Eglino per forza d’ingegno sono superiori agli altri popoli Europei”. E quindi li invita a tornare agli studi di matematica, fisica, storia naturale, economia pubblica, politica, così come in altri Paesi d’Europa.
 Ai Magistrati, che sono “...custodi delle leggi e dè dritti altrui” raccomanda “...di difendere questi a seconda di quelle...Eglino non sono autori delle leggi, ma sono i fedeli esecutori delle une, ed i ragionevoli difensori degli altri”. Da ciò dipende il buon ordine e la quiete dei popoli, e quindi la gloria e il valido sostegno del Governo. “L’idea della giustizia comunicata ed impressa dai magistrati ai cittadini rende gli uni giusti verso gli altri, e verso il Governo stesso”.
 Nell’Articolo VI l’Autore affronta la questione della abolizione del governo Feudale introdotto dalla forza in luogo della giustizia e dal capriccio, da popoli vagabondi e barbari, non da illuminati politici.
 La sovranità essenzialmente si esprime nelle prerogative e giurisdizioni dei Baroni: invece il potere della sovranità è indivisibile e non deve essere alienato ai Baroni che assumono un potere illegittimo e oppressivo, generando un “orroroso mostro politico, con danno dei cittadini e del Governo”.
 Si aboliscano simili barbare istituzioni. Occorre togliere ai Baroni la giurisdizione e i loro diritti, lasciando loro solo alcuni fondi: così i governi diventeranno potenti, i popoli saranno riconoscenti per essere affrancati dal giogo della miseria, dall’avvilimento, dalla oppressione.
 Montesquieu nello “Spirito delle Leggi” affermava che la monarchia sarebbe dispotica se non vi fossero le prerogative dè Signori e dei nobili, ritenendo quindi utile la potestà intermedia fornita di giurisdizione e di prerogative: ma il filosofo non comprese che lo Stato diventa florido con l’abolizione delle prerogative dei Baroni e della giurisdizione. In Francia l’abolizione ha procurato floridità, potenza e gloria al Governo.
 L’Autore osserva che i diritti dei cittadini e le loro proprietà sono sacri e inviolabili e bene ha fatto il Governo del Regno di Napoli - che ama la felicità dei popoli - ad abolire i feudi, promulgando la Legge 5 agosto 1806; con le “...paterne cure del nostro magnanimo Governo...” i popoli conosceranno col tempo i vantaggi (in effetti con la Restaurazione le Leggi eversive della feudalità rimasero confermate, sia pure con le modifiche introdotte da Ferdinando I° nel 1819). Antelmy inneggia al Governo (di Giuseppe Bonaparte) affermando che “...l’epoca descritta de’ 5 agosto sarà troppo celebre, e memorabile dè nostri annali, per non cancellare dalla memoria dè posteri colle vicende dè tempi; e sarà sempre cara ai popoli napoletani. Possano questi popoli corrispondere con eguale energia, amore e riconoscenza ai tratti generosi e benefici di quel Governo, che gli ha liberati dal duro, e penoso giogo dell’abolito sistema feudale”.
 La Guerra, pur costituendo diritto della sovranità va evitata usando vie più “umane e soavi”, perchè è “flagello dei popoli vinti e ruina dei vincitori”.
 La gloria che nasce dalla giustizia e dalla umanità è di maggior rilievo “...che l’aura vana e desolatrice dell’umano genere acquistato mercè le armi”.
 Le Leggi devono essere savie e prudenti per ottenere buon ordine, quiete e la stessa esistenza delle società. Le buone leggi assicurano e proteggono i beni, le libertà civili, la vita dei cittadini; introducono i lumi e le cognizioni; rettificano le opinioni errate e richiamano virtuosi costumi. “Più dee Sparta alle savie leggi di Licurgo, che ai bellici sudori e rinomati trionfi di Pausania e di Lisandro”. (Cicerone, de Officiis).
 Molte leggi moltiplicano le liti, affermava Platone nella Repubblica; i giudici hanno così la facoltà di giudicare “a lor talento”; neppure però devono essere poche e non chiare: “Gli storcileggi, i disonesti giureconsulti, e gl’ingiusti magistrati colle false, e capricciose interpretazioni possono recare ai cittadini danno, e molestia. La quiete, e la felicità dè popoli esigono, che le leggi sieno di poco numero e chiare”.
 Le leggi civili devono essere brevi, precise le criminali “...si debbano in tal guisa dettare, che poco, o niente si lasci all’arbitrio del giudice, e che tra l’ delitto, e la pena vi sia la debita, e giusta proporzione”. Il cittadino innocente abbia la massima sicurezza a non essere condannato; all’incontro, sia punito il reo, ed abbia costui la minima speranza possibile a non soffrire l’imparziale rigore della giustizia.
 “L’Eroe del nostro secolo, Napoleone il Grande, ha promulgato per l’Impero francese e per il Regno Italico il nuovo Codice delle Leggi” (introdotto nel 1806, il 26.12.1809, due anni dopo la pubblicazione del saggio di Giuseppe Antelmy, entrerà in vigore nel Regno delle Due Sicilie; va precisato che l’entrata in vigore fu graduale e non uniforme per tutto il Regno). Al momento della stesura del saggio l’Autore osserva che la legislazione forma un corpo di leggi “...immenso, disordinato, mostruoso”, ricomprendendo leggi dei Romani, dei Longobardi, dei Normanni, degli Svevi, degli Angioini e degli Aragonesi; a queste si aggiungevano i cosidetti “Dispacci”; tutte leggi promulgate in tempi diversi, in altre circostanze e forme di governo, per popoli di vario costume, genio, educazione, discordanti e contraddittorie, che rendono incerti i diritti e i beni, con  moltiplicazione di liti, rovina di famiglie, vilipendio dela giustizia, avvilimento di agricoltura, arti e commercio, rozzezza dei costumi, inciviltà delle maniere.
 “La saviezza e l’impegno del nostro illuminato governo ci promettono che la legislazione debba correggersi liberandoci dai nostri mali e rendendo felice e tranquillo il nostro paese”.
 “Noi e la posterità saremo sempre sensibili, e sempre riconoscenti alla mano benefica, e generosa dell’immortale umano Genio, nostro Liberatore”.
 Con questo inno a Napoleone l’opera si chiude: le aspettative furono soddisfatte: oltre all’introduzione del Codice Civile, che realizzava nella disciplina dei rapporti privati i diritti politici contenuti nella Dichiarazione dei Diritti del 1789 contenente i principi della Rivoluzione Francese, con la salvaguardia di libertà, proprietà, sicurezza, esercizio di diritti naturali, libertà di pensiero e di opinione, ammissione dei cittadini a uffici e impieghi, e si incentrava sulla proprietà e sulla iniziativa economica, regolando obbligazioni e contratti ispirati all’economia capitalistica di natura agricola e commerciale e introduceva il collegamento tra colpa e responsabilità, furono introdotte norme di procedura civile nel 1809, disposizioni sui Delitti e sulle Pene con la Legge 20.5.1808, n.143, la Legge 22.5.1808, n.153 sulla giurisdizione di polizia e sulla giustizia correzionale, più Legge e Regolamento richiamate sull’Ordinamento Giudiziario del 20.5.1808.

 L’importanza, la modernità e i suggerimenti contenuti nell’Opera di Giuseppe Antelmy, meriterebbero la ristampa!

2 commenti:

  1. Qus la strat già la ten, pur lu convegn. Qued già non s'accoggjn pe l'alt cos figuret ci pon pensà

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  2. na strad a Luig Popoff condottiero fallimentare, na si po' intitola'?

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