Visualizzazioni totali

I Racconti di Damiano Leo

       Sabato 26 Marzo 2016

LA PARMIGIANA E IL CANE

Decidemmo per la parmigiana. Non la mangiavamo da tanto e le tre o quattro melanzane mimetizzate tra l’insalata, nel frigo, cominciavano a dare chiari segni d’invecchiamento. Dovevano necessariamente finire in padella e al più presto. Così mia moglie fece in modo che per quella cena dovevo optare per una ricca parmigiana.
Il piatto, ripulito per bene, fu il chiaro segno che avevamo fatto la scelta migliore. Fatto salvo quello che successe a me da lì a qualche ora.
La solita sbornia televisiva mi cacciò, alla chetichella, tra le lenzuola. Mia moglie mi raggiunse, credendo di non essere sentita, non più tardi di una lavata di denti. Non dormivo ancora e nulla mi lasciava presagire che lo avrei fatto, almeno in breve tempo. La parmigiana cominciava a farsi sentire. Non so a mia moglie, ma a me sembrava che quella pietanza volesse rimproverarmi d’averla fatta fuori. Certo qualcosa non stava funzionando. Presi a girarmi e rigirarmi nel letto come  fossi una coda di lucertola appena staccata dal resto del suo corpo.
La mia consorte dormiva, quella notte. Io continuavo a maledire la parmigiana. Passai il cuscino dalla testa ai piedi e poi di nuovo alla testa, quindi sotto la schiena e ancora ai piedi. Il cuscino, mi parve, cominciò a maledire prima me e poi la cena. Non dormivo. Proprio non riuscivo a dormire. Forse era meglio alzarsi e fare quattro passi. Feci quattro passi. Anzi, quarantaquattro passi. Li contai come si contano le pecore quando non si riesce a dormire.
Dovevo stancarmi, se volevo essere accarezzato dal dio Morfeo. Ma dove si era cacciato, quella notte? Dicono che capita di non riuscire a dormire, qualche volta. A me non era mai successo e lo sapeva bene mia moglie che continuava, beata lei, a sognare. Già, i sogni, me ne raccontava di straordinari, appena levati.
Io non sogno mai. Come avrei potuto, quella notte, senza sonno e per giunta strapiena di turbamenti? Una notte senza fine, lenta, maledetta. Per ammazzare il tempo, che non voleva morire, avevo persino contato gli incroci che formavano i mattoni del pavimento. La messa in opera, mia moglie,  l’aveva voluta a spina di pesce ed io, quella notte, con un dito avevo seguito tutte le fughe, per contarne gli incroci.
Gli occhi mi dolevano non poco. Allo specchio del bagno di servizio, quello lontano dalla camera da letto, mi sembravano due buche da golf. Decisi di non ritornare più a letto. Lo avevo fatto già troppe volte e sempre avevo finito con l’alzarmi un’altra volta. Tanto valeva restare in bagno. L’alba non doveva farsi attendere ancora molto. Le due sveglie sul comodino di mia moglie, a turno, avrebbero fatto sentire a breve il loro canto.
La cinghia dell’avvolgibile mi accarezzò la mano, quella libera dagli occhi arrossati. Potevo verificare il sorgere del sole se solo la tiravo a me, la cinghia. Lo feci, lentamente, per non fare rumore, per non svegliare mia moglie.
Finalmente aprii la finestra. Una nuvola di fumo m’invase la faccia. Mi sporsi più che potevo, per cercare di guardare oltre la nebbia. Un cagnaccio dal pelo bianco, almeno così mi parve, andava su e giù sul marciapiede di fronte, dal civico 4 al civico 14. Di tanto in tanto si fermava e alzava lo sguardo in alto, come se cercasse qualcosa o qualcuno. Come se volesse compiere qualcosa senza essere visto. Forse gli animali sanno fare più di quello che lasciano vedere. Solo non vogliono farcelo sapere.
Quel cane, improvvisamente, si fermò. Dette fugacemente un’ultima occhiata in giro e s’avventò sulla prima porta che gli capitò a tiro. Portò in alto le due zampe anteriori. Si assestò dritto in piedi come se quella fosse la sua usuale posizione. S’appoggiò con le zampe sulla maniglia e la porta si aprì. Spinse il muso contro il video citofono. Uno squillo rimbombò nella nebbia.
Il cane sparì come una saetta dietro l’angolo, forse perché, credendo di non essere visto, poteva comportarsi come gli umani.



Nessun commento:

Posta un commento