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I Racconti di Damiano Leo

Sabato 18 Giugno 2016
LE DITA SUL PIANOFORTE

  Filomena, la mia sorella minore, finalmente l’aveva spuntata. A differenza di noi, era riuscita a farsi iscrivere al Conservatorio. Lei - diceva -  aveva un debole per il pianoforte, così, per quello strumento, tutte le sere, dalle cinque alle sette, era fuori casa.
  Io un po’ la invidiavo e non tanto perché lei poteva cambiare aria, quanto perché anche a me sarebbe piaciuto ricevere lezioni di musica. A me piacevano tutti gli strumenti a percussione, ma mi ero dovuto accontentare di picchiare e ripicchiare su pentole, tegami, bicchieri e stoviglie inforcando mestoli di legno da cucina. Mia madre tollerava, ma lei, mia sorella che frequentava il Conservatorio, proprio non voleva stare ad ascoltarmi. La mia non era musica, ma insopportabile rumore, almeno per lei ed anche per mio padre e i miei fratelli, in verità.
  Sconfitto dall’insensibilità di quanti abitavano la mia casa, rinunciai per sempre ai miei concerti. Il mio estro artistico virò verso altri interessi. Filomena, invece, aveva seguitato a frequentare l’istituto musicale, con qualche risultato, almeno così dicevano i miei. Tanto che, pur tra mille difficoltà, nel salone di casa, a bella mostra, erano riusciti a piazzare un vecchio ma ancora funzionante pianoforte. Lo avevano quasi estorto, pagandolo poco per volta, ad un vecchio insegnante di musica in pensione, amico di amici e bisognoso di liquidità.
  Tre anni di Conservatorio erano bastati perché Filomena facesse volare i suoi ditini da un tasto all’altro del suo intoccabile pianoforte. Una scala oggi, una scala domani. Solfeggi e ancora solfeggi. Lei era sempre là, incollata allo sgabello del suo strumento. Che non andava toccato. Era lei la musicista di casa e a lei toccava deliziarci della sua musica. Confesso che le sue prime suonatine cominciavano a piacermi. La mia vecchia passione per le note, di tanto in tanto, tornava a galla e proprio grazie lei, a mia sorella che aveva frequentato il Conservatorio. Dico “aveva” perché ormai non frequentava più. Si limitava, ormai, ad eseguire ad orecchio quei pochi passaggi che aveva imparato quando frequentava. Certi pomeriggi a me la sua musica risultava particolarmente piacevole. Seguivo con piacere le sue mani che correvano sulla tastiera. Tasto bianco, tasto nero, poi di nuovo: tasto bianco e tasto nero. Ti, ta, ti, ta e ancora ti, ta, ti, ta. Sprofondavo sulla poltrona posta dinanzi al pianoforte. Percepivo un dolce rilassamento generale. Tra un ti-ta e l’altro mi percepivo che tutto il mio sistema nervoso si liberava da ogni forma di tensione. Mi addormentavo.
  La poltrona che mi aveva accolto improvvisamente mi risultava scomoda. Qualcosa mi stava infastidendo. Cominciavo a sentirmi sulle spine, ad innervosirmi. Non avevo più pace. Mi giravo e rigiravo, di qua e di là, a destra e a sinistra. Allungavo piedi e mani. Il fastidio cresceva, cresceva, cresceva. Non ne potevo più. Sgranavo gli occhi. Ero ancora là, davanti al pianoforte. Le dita di mia sorella volavano ancora sui tasti bianchi e neri. Ti, ta, ti, ta, ti, ta e ancora ti, ta, ti, ta. Tasto bianco, tasto nero, poi di nuovo: tasto bianco e tasto nero. Ti, ta, ti, ta e ancora ti, ta, ti, ta.
  Richiudevo gli occhi, con forza e immaginavo che le dita di mia sorella rimanessero sulla tastiera, incollate.

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