Mercoledì 9 gennaio 2019
Egr.
Direttore,
seguo con autentica
sofferenza le vicissitudini che accompagnano la parte più antica e la torre
merlata del castello ducale di Ceglie
Messapica, la mia amata città natia. La mia viva speranza è che veramente ora
si sia finalmente compreso che non è più concesso attendere altro tempo, perché
tutto il complesso castellare venga messo in sicurezza, evitando altri nuovi
crolli e sottoponendo a restauro un patrimonio immobiliare che non è solo dei
cegliesi, ma che appartiene a tutti coloro a cui sta veramente a cuore non solo
la particolare architettura del manufatto fortificato, ma la sua lunga storia,
scritta attraverso il procedere dei secoli.
Io credo di essere tra i
pochi fortunati a cui è stato concesso l'onore di salire sino in cima alla
torre merlata, molti e molti anni or sono, ciò che allo stato delle cose non è
più possibile ad alcuna altra persona. Anche per questa amara constatazione,
ritengo sia giunto il momento di fare in fretta per regalare ai cegliesi e al
movimento turistico un altro pezzo consistente del maniero che, ne sono certo, oltre
a rappresentare un ulteriore potenziale contenitore culturale futuro, saprà dare
un contributo importante alla città di Ceglie, per divenire sempre più
attraente. Desidero, anzi voglio, fortissimamente voglio ripetere l'esperienza
vissuta molti anni addietro, risalendo in cima alla torre dove, posso garantire,
ci si sente proiettati nel cielo infinito. Ma questa volta lo voglio fare
pagando il biglietto, come ho fatto ripetutamente, visitando le più celebri
torri italiane, da quella senese di Piazza del Campo a quella pisana di Piazza
dei Miracoli, solo per citarne alcune. Pagare il biglietto, per salire in cima
alla torre, è doveroso ed è una soluzione ottimale irrinunciabile, per
procacciarsi risorse per un'altrettanta irrinunciabile manutenzione ordinaria e
continua nel tempo.
E' per queste motivazioni
che ho pensato bene di dedicare a tutti i cegliesi un mio modesto scritto
aggiuntivo, la cui enfasi letteraria altro non vuole che esaltare la sensazione
di inenarrabile meraviglia provata da chi scrive in cima alla torre merlata, nella
speranza che tutto ciò funga da catalizzatore di un fare che, è mio auspicio,
accenda sino in fondo le energie di tutti i cegliesi, e delle istituzioni, verso
un improcrastinabile immediato restauro del più insigne dei monumenti cegliesi,
in cui è possibile riscontrare buona parte del nostro Genius loci.
L'occasione mi giunge propizia
per augurare a Lei e a tutti i cittadini cegliesi, nessuno escluso, un
meraviglioso anno 2019.
Vito Elia
In
cima alla torre merlata del Castello ducale di Ceglie Messapica
(tra
sogno e realtà)
Sono ormai trascorsi quasi
cinquant'anni dal giorno in cui l'allora mia fidanzatina lasciò, unitamente
alla sua famiglia, l'appartamento situato proprio sopra l'ingresso del castello
ducale di Ceglie Messapica, per potersi trasferire in altra abitazione della
medesima città. Ora che ci penso, chissà quante volte ho fatto su e giù per
quelle scale, quelle lunghe e ripide scale che, partendo dal cortile interno
del castello, e poggiando su una delle sue parti più antiche, portano a quella
dimora. E chissà quante volte ho mirato e contemplato ogni angolo del vecchio maniero.
Chissà quante volte mi sono chiesto cosa vi fosse al di là della vetusta parete
della torre normanna e chissà quante volte ho fantasticato su cosa avrei potuto
ammirare, stando sulla vetta della torre merlata, proprio in cima al punto più
alto di città, dove nessuno o quasi ha mai osato.
E' vero, a volte i sogni
diventano realtà, ma occorre crederci, occorre perseveranza ed io ci ho creduto
e perseverato. Mi spiego. Per quanto lunghe e verticali e mi portassero dalla
mia amata, salire quelle scale ripetutamente non mi è più bastato. Poco per
volta, ho avvertito l'insorgere di un desiderio, che è andato crescendo salita
dopo salita, alzata dopo pedata, sino a divenire un'ossessione, per carità, una
piacevole, irresistibile e seducente ossessione. Quella torre merlata, che
domina l'urbe messapica e il territorio tutt'intorno a perdita d'occhio, tanto
amata ed ammirata dai cegliesi, appariva ai miei occhi tanto misteriosa quanto
irraggiungibile, un tabu', insomma un sito interdetto, di una interdizione insopportabile
non solo per me, ma credo, senza timore di essere smentito, per l'intera
cittadinanza. Eppure, quella torre merlata era lì, ed era come stampata da
secoli negli occhi e nei cuori tutti dei cegliesi, come una cosa propria che ci
apparteneva, ma paradossalmente lontana nella sua misteriosa maestosità, quasi
fosse irraggiungibile dimora degli dei.
Si sa, quando si è giovani,
spesso i tabù finiscono per cadere, ma bisogna crederci, occorre volerli infrangere,
mettendosi in gioco. Io a tutto ciò vi ho ottemperato.
A quel tempo, ad abitare una delle parti
padronali del castello, ormai quasi disabitato, vi era ancora una coppia di attempati
signori. Non una coppia qualsiasi, di umili natali, ma una coppia entro cui
scorreva aristocratico sangue, quello dei Verusio, nobile casato napoletano ed ultimi
possessori, in ordine di tempo, dello storico maniero.
Ebbene si, devo proprio a quella nobile coppia
se mi è stato possibile ciò che prima poteva sembrare assolutamente impossibile.
E lo stato d'animo d'un colpo s'è fatto di impazienza, di ansia di scoperta, di
trepidazione diffusa, persino di sogno ad occhi aperti. Sapere di stare sul
punto di compiere qualcosa al di fuori dell'ordinario, in quel contesto
storico-ambientale, personalmente mi dava la netta sensazione di non starci più
nella pelle. Pensate, un tabù stava per essere infranto, quella torre, alta ed
irraggiungibile agli occhi miei, e non solo miei, stava per essere raggiunta e
domata, quasi fosse alta vetta di montagna.
Se la memoria non mi
inganna, saremo stati in tre, io, la mia fidanzatina A. e suo fratello C. ad
avere il sommo piacere di compiere l'impresa. Esatto impresa!, quantunque si
trattasse di una operazione di una scontata normalità per qualsivoglia altro
luogo, qui la cosa acquisiva il sapore di una vera e propria impresa, riservata
a pochi intimi. E già fantasticavo, ripeto, sognavo ad occhi aperti,
pregustandone la eccitante avventura. Come per incanto, sinestesia diffusa attraversava
una dopo l'altra le stanze del maniero, come attraversare secoli di storia
locale, ali ai piedi, senza far rumore, risucchiati da due avvolgenti ali
festanti di casati nobiliari, bucando spazi e luci d'altri tempi, come in una
favola infinita.
Così, se a spalancarci le
porte v'erano stati i Verusio, ecco apparire nel primo tratto da un lato i Pagano,
dall'altro i Lubrano, quindi a seguire i Sisto y Britto, ma ecco ancora Svevi e
Angioini, tra un tripudio di stendardi e stemmi araldici, di gonfaloni e
coccarde, di scudi ed armature, di merletti e drappi d'oro, di seta jacquardati,
in un'atmosfera solenne, ma festosa al tempo stesso, sublimata da soavi note e
canti celestiali di stuoli di dolci creature, al nobil comando di Lionardo Leo,
così, lungo tutto il nostro lento ma fluido e ovattato procedere, verso il
cielo. No!, non eravamo soli nella nostra ascesa verso quell'olimpo nostrano, ovunque
presenze palpabili, tra effluvi di inebrianti essenze e l'eco di voci remote
eppur vicine, sotto una pioggia vellutata di petali di rose, sino all'imbocco
dell'ultima rampa di scale, dove un fascio di luce sempre più fitta prendeva,
poco alla volta, posto alle ombre e luci d'un chiaro stampo caravaggésco, restituendo
il volto splendente d'Aurelia Sanseverino, la nostra Venere, l'immeritata dea
della nostra lucente Kailia.
Finalmente, sfolgorante è l'approdo,
il parto, nel punto più alto, in cima al
colle più alto di città, come sputati fuori da un opercolo, come feti eruttati
dal ventre materno, là, dove finisce il possente maniero e comincia il celeste soffitto,
l'immenso, lo sterminato, l'etereo cielo, entro cui si scaglia, gagliarda e
padrona, la bella torre merlata, fin sopra la croce più alta dell'urbe antica.
E' lì che, volgendo a destra
e a manca e su e giù, i miei occhi, stupiti e rapiti, si sono d'un tratto illuminati
d'immenso.
Goduria allo stato puro, in
sinestesia multi sensoriale, incommensurabile, totalizzante.
L'apoteosi.
Vito Elia
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