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I Racconti di Damiano Leo

Lunedì 8 Agosto 2016

INCOSCIENTE FELICITÀ


  Lo avevano adagiato su un tavolo di marmo all’obitorio e mi avevano rintracciato per il riconoscimento. Ero io il parente più prossimo, io che sono suo fratello maggiore. Nessuno, meglio di me, avrebbe potuto adempiere quel triste rito.
  Mio fratello Gennarino, immobile su quel freddo tavolo, non poteva essere diversamente giacché era saltato in aria con tutto il suo carico di tritolo, aspettava me.
  Ci sono andato, al cimitero. Come avrei potuto sottrarmi? Due carabinieri, che sembravano la meraviglia fatta carne, mi stavano uno a destra e l’altro a sinistra. Come se ad armeggiare con quel maledetto ordigno fossi stato io e non quel poveretto di mio fratello. Loro lo avevano già ispezionato, nel sottoscale dell’incidente. Se l’erano guardato per benino, mio fratello. Almeno così mi hanno raccontato e non si spiegavano quello strano sorriso stampato su ciò che era rimasto del viso di quel disgraziato di Gennarino.
  L’ultimo, strano, sorriso di mio fratello aveva fatto subito il giro del paese. Più dell’esplosione. Quello che più meravigliava non era tanto il boato, in pieno giorno, che pure era stato forte, quanto quell’espressione di grande felicità. Notata da chiunque aveva avuto il coraggio di dare una sbirciatina nel sottoscale del triste evento. Gennarino, non v’era dubbio, sorrideva nel tentativo, non riuscito, di confezionare una nuova bomba per capodanno. Ma perché? Nessuno si era saputo dare una risposta, nemmeno gli inquirenti. Quelli, forse, volevano saperlo da me, dopo il riconoscimento.
  I due militi si misero da parte e mi lasciarono entrare, nell’obitorio. Mio fratello era là, coperto da un grande telo verde. Lo riconobbi subito, prima ancora di scoprirlo. Conoscevo bene tutte le sue curve. Lo avevo osservato, così coperto, mille e mille volte. A lui piaceva dormire, con le coperte d’inverno e le lenzuola d’estate, tirate fino al capo. Vivevamo sotto lo stesso tetto da sempre, io e mio fratello.
  Quelli, i due carabinieri, però, vollero che sollevassi il telo dalla faccia. Per essere sicuro che si trattasse di mio fratello. Anche a me era giunta la notizia dello strano sorriso. Uno, salta in aria e sorride. Non ha il tempo di chiedere aiuto, perdono, ma di sorridere sì. Beata incoscienza. Incosciente felicità. Mio fratello era là, immobile. Toccava anche a me guardarlo in viso. Capire, se c’era capire. A me, più che a chiunque altro, chiedevano non solo di riconoscere, ma anche spiegare quel sorriso, quel ghigno di gioia, di contentezza.
  Mio fratello, poveretto, aveva riso. Saltato in aria, mentre armeggiava la sua miccia, il suo tritolo, i suoi intrugli esplosivi e aveva sorriso. Sì, sorriso e tutti ne erano meravigliati. Anche i due carabinieri. Nessuno, però, capiva. Dovevo farlo io, che ero suo fratello.
  M’accostai lentamente al tavolo di marmo, dove mio fratello aspettava d’essere riconosciuto e capito.
  Levai, da un angolo, il telo verde. Tanto quanto bastava per scoprire quello che era rimasto del volto di mio fratello. Era proprio lui, il mio povero fratellino e sorrideva, come non aveva fatto mai. Neanche il giorno della Prima comunione. Lasciai che il lembo del telo verde tornasse al suo posto. Giunsi le mani in preghiera. In alto lo sguardo, per non piangere. Un Eterno riposo e poi un altro e un altro ancora.
  Capii.
  Gennarino era felice d’essere morto da solo. Con il suo tritolo, la sua miccia, i suoi intrugli esplosivi che, a capodanno, chissà quante vittime avrebbero potuto fare.

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