Giovedì 4 Dicembre 2014
Ricorre il 250° anno del celebre saggio “Dei
delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (Milano, 15.3.1738, ivi, 28.11.1794),
figura eminente dell'”Illuminismo”, scritto nel 1763 e pubblicato il 1764 a
Livorno (per non incorrere in censure da parte del governo austriaco).
Il libro, che si faceva interprete di una più
equa e umana aspirazione di giustizia, segnò l'inizio di una fondamentale
riforma della pratica punitiva. Delineò
concetti della pena fissandone l'origine nei “motivi sensibili che bastassero a
distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell'antico
caos le leggi della società” e puntualizzando che ogni esercizio del diritto di
punire non necessario alla difesa del corpo sociale non costituisce più un
diritto, ma un abuso.
Definì il concetto delle pene come “una
restaurazione dell'ordine ed una riparazione di nostri violati diritti”,
stabilendole giuste per riparare alle ingiuste azioni degli uomini; la loro
applicazione doveva essere ispirata a “dolcezza” in quanto “uno dei più gran
freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità di esse”,
dovendo essere evitata “l'inutile prodigalità di supplizi”, ed esclusa la
tortura e la pena di morte, essendo assurdo che le leggi, che sono
l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne
commettano uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall'assassinio,
ordinino un pubblico assassinio”.
Beccaria auspicò la “ragionevole” durata del
processo in ossequio al principio secondo il quale “quanto la pena sarà più
pronta e più vicina al delitto commesso ella sarà tanto più giusta e tanto più
utile”.
L'opera oggi ricordata nel 250° anno di
pubblicazione fu tradotta e diffusa in Europa e nel mondo, riscuotendo
l'apprezzamento di filosofi e governanti.
Avv. Augusto Conte
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