TUTTE LE POESIE DI VINCENZO GASPARRO: UN CANTO POETICO SULLA
BELLEZZA, SULL’AMORE E SULLA “OSCURA NECESSITA” DEL NOSTRO
ESSERE.
Di recente è
stato pubblicato dalla Book Sprint Edizioni il libro dal titolo
“Tutte le poesie” del poeta cegliese Vincenzo Gasparro,
contenente le liriche fondamentali composte dal 1994 al 2012 con
inediti e con una nutrita testimonianza di saggi dedicati alle varie
sillogi di questo volume.
Fin dalle
liriche di “Taccuino”, il poeta offre inedite fascinazioni che
rivelano spunti di una intensa originalità nel trasporre i fenomeni
naturali in un assorto inventario di caleidoscopiche apparizioni di
parvenze intermittenti di fulgori e balenii di una visione
culminante in una incantata resa georgica, allusiva e mitica. La
poesia del Gasparro dà un’anima ed una voce calda e singolare alle
cose: tutto sembra acquistare un’eccelsa bellezza con un tripudio
inebriante di colori e suoni, in accensioni brevi ma vertiginose, per
poi dar luogo ad un grigiore di toni spenti per la corrosiva
incidenza del tempo che conduce alla morte.
La Murgia rivive
in questo poeta con i suoi smaglianti colori, i suoi profumi e le
forme leggiadre dell’ameno suo paesaggio naturale, diventando quasi
il simbolo di una felicità primigenia del suo popolo e svelando del
poeta un segreto legame, come una rimemorazione nostalgica ridestante
antichi e struggenti candori di un passato edenico, mentre si avverte
sempre più la presenza terribile del tempo che passa e della morte
avanzante. Fra le antitetiche realtà della bellezza della natura e
della vita e la morte, nella sua poesia il Gasparro ricerca sempre il
filo misterioso e segreto di una loro possibile unione o sintesi,
partendo da quell’ “obliquità dell’essere”, che gli detta
pur tuttavia i versi più avvincenti e poetici.
Indizi di quell’
“oscura necessità”, che ci opprime, si possono cogliere fin
dalle prime sillogi: la sera che “odora di morte” (p. 24 del
libro), la sete di eternità (p. 24), il senso della morte (p.30 e p.
83), il dolore cosmico (p. 111 e p. 179) con “La morte (che)
annienta sogni /d’onnipotenza ma rantoli / di dolore d’un bambino
/ urlano contro Dio” (p. 117).
Con le sillogi
successive la fiducia nella vitalità del tutto è incrinata però da
lacerazioni e da dubbi per l’imperversare del dolore e del male
riversato soprattutto sul cuore innocente dei bambini. Il maggior
scavo interiore e il brivido e lo scacco della “creazione
incompiuta”, danno ai suoi versi una forte accensione stilistica ed
ontologica ed un senso religioso e teologico.
Il Gasparro così
accede ad una poesia inedita che aderisce vigorosamente al senso
intimo e doloroso della vita, il cui andirivieni tra vuoto subìto e
i sussulti della vita, non si pone mai come un inerte oscillare tra
l’essere e il non essere, per la ragione che il processo di
espansione tematica verso l’assoluto, ponendosi come una inesausta
ricerca cognitiva a carattere intuitivo, vive di incessanti ed
intuitive commisurazioni a carattere “verificale”, sublimatesi
nella stesura di versi coinvolgenti e poetici, densi sovente di un
francescanesimo misto al senso del mistero e ad una sentita empatia
compassionevole verso tutte le creature naturali.
La bipolarità
dell’esistenza in realtà assume in questo poeta una forte
discontinuità dell’Essere, che è un morire e un rinascere in ogni
istante, come dei “flashes” di attimi della coscienza proiettati
nei balenii transeunti di una apparizione che subito scompare. Così
la discontinuità dell’Essere e la sua ambiguità si rivelano nelle
commisurazioni intercorrenti tra il nichilismo della presente
stagione e i valori tipici di un perduto passato, tra l’attuale
scissione dell’io e l’unitarietà coscienziale smarrita, tra il
domino selvaggio del pianeta Terra e l’amore per tutte le creature,
tra la società della plastica e il suo futile edonismo e i veri
sentimenti che albergavano nell’anima priva di lati oscuri e di
peccati, tra la città che “pulsa d’angoscia” (p. 137) e il
“tripudio dei colori” (p. 177) dello suo “quieto paese”.
Eppure, il poeta
non si stanca mai di ricercare il senso della felicità e della
trascendenza dell’uomo. “Signore che cavalchi lampi / e tuoni non
t’accorgi ch’è / finito il tempo dei gelsomini / in un mondo di
latta e plastica. / Negletta vaga la poesia / in cerca d’infinito”
(p. 96).
Non a caso sono
stati riportati questi versi, bensì per evidenziare il contrapporsi
violento del tempo dell’unitarietà e valenza dei sentimenti con il
mondo attuale corrotto e disumano in balìa dei ciarlatani. In
effetti il loro contrapporsi si origina da una commisurazione
intuitiva dei loro aspetti, che poi la Poesia, quale grande forza
commisurativa del sentimento, ne ricerca il loro eventuale punto
d’incontro o una loro probabile sintesi.
Avvincono del
resto di questa silloge antologica “Il canto di Orfeo” (Nel
mattino disperso, 2004), “La cura di Gaia”, “La lanterna di
Diogene” e, soprattutto, l’eccelso “Mediterraneo”, facenti
parte del volumetto dal titolo “La cura di Gaia” del 2006, con la
storia, la civiltà e gli scambi mercantili e culturali dei popoli
che l’hanno interessato, Una poesia seducente che esalta l’amore
fra i popoli in nome del progresso e della pace, mentre l’ultima
lirica di p. 198 avvince per le note dolenti che riguardano la natura
e la condizione esistenziale dell’uomo di oggi.: “non siamo
capaci di guardarci dentro / leggere il nostro lato oscuro mentre /
affoghiamo in deliri e paure e siamo / dominati da maghi e
ciarlatani…”.
Gasparro nelle
sue più recenti opere è pervenuto ad una rimarchevole capacità
espressiva e ad un’apprezzabile maturità artistica, rivelando la
struttura di un verso fluido di una terrestrità sensuale e
visionaria, soffuso di una estrema grazia e delicatezza, basato sulla
dicibilità di parole essenziali che condensano la profonda intimità
del suo sentire, fatto di stupori intensi e di commisurative
riflessioni intuitive, che gridano la disperazione e l’angoscia dei
nostri giorni, con la fede inesausta di un incessante ricercare per
scoprire l’essenzialità di una possibile verità e di un eventuale
spiraglio di una trascendenza dell’uomo, poiché – afferma il
poeta – “Siamo costretti / a continuare la creazione” (p. 146)
con la speranza che “…verrà il tempo che al desco siederà
l’ospite / dagli occhi sinceri accenderà la luce / della lampada”
(p. 204), in forza di quella poesia che alimenta la speranza
dell’attesa di un Dio che “apre la porta / all’inatteso e
l’imprevisto fonte di speranza” (p. 212), nella consapevolezza
che “tutto è perfetto nel suo limite tutto / ci rimanda alla
perfezione più grande” (p. 188), dal momento che la speranza del
poeta viene riposta nella consapevolezza che “S’azzera il tempo /
in anfratti di dolore / di creature nude. / Sgorgheranno nuove
metafore / al tocco del simandro 1.” (p.96).
Vero poeta, il
Gasparro, rivela il merito di affrontare e trattare la bipolare
terribilità dell’esistere con un canto che placa l’angoscia e la
nevrosi, rivelando la fremente tensione di un pressante anelito di
potere attivare una inedita sublimazione, che instauri una cognizione
accettabile del dolore, un obiettivo significato della vita e,
soprattutto, la trascendentale identità della dimensione spirituale
dell’uomo.
Andrea BONANNO
Nota:
1.
Il simandro, usato a Bisanzio nel decimo secolo, è uno “strumento”
consistente in una sbarra di ferro o di legno che veniva percossa per
richiamare i fedeli, sostituendo la funzione di una campana. In una
canzone popolare dal titolo “Zeimbekiko” del 1935 di Markos
Vamvakaris “Frangos”, nato nel 1905, si parla di simandri che
“rimbombano” per alludere alle sbarre delle prigioni, il che
nella poesia del Gasparro acquista un doppio significato religioso e
laico, nel senso che la coscienza dell’uomo attuale, simile ad una
prigione per via dell’ “oscura necessità” che l’opprime, è
chiamata a far rimbombare, come un simandro, il suo anelito a
ricercare la via della liberazione e di una possibile trascendenza.