RUMORI SOSPETTI
I tre si erano giurato fedeltà, con i fatti,
non con le parole. Gli ultimi furti d’appartamento, nonostante avessero
fruttato poco, avevano dato forza e coraggio al loro menage.
Potevano osare di più. Se lo erano detto e
ridetto nei giorni successivi all’ultima spartizione.
Riuscire ad intrufolarsi in un appartamento
per portar via solo qualche oggetto di poco conto cominciava a star loro troppo
stretto. Giacché c’erano potevano trafugare di più, molto di più. Bastava organizzarsi.
Nella grossa metropoli nella quale avevano deciso di far quartiere generale,
non mancavano certo le opportunità. Dovevano attrezzarsi. I frutti si sarebbero
visti.
In pieno centro residenziale avevano
individuato un attico normalmente non presidiato dalle otto alle diciotto. Anche
gli altri quattro inquilini, tutti professionisti, in quelle ore erano altrove.
Dieci ore di indisturbato lavoro.
Ripetuti sopralluoghi avevano fatto sì che i
nostri ladri decidessero per tempo come e da dove introdursi. Sul retro del
palazzo c’era spazio a sufficienza per piazzare un comodo trabattello. Nessun
balcone e nessuna finestra lungo tutta la verticale. Avrebbero simulato una ritinteggiatura
a pennello di quella fascia.
Ognuno per contro proprio, per non destare
sospetti, aveva acquistato l’occorrente: tute usa e getta, guanti, pennelli e
pittura, elmetti e scarponi antinfortunistici. Il capo si era procurato, non
sappiamo come, l’impalcatura mobile, completata di tavoloni e cartelli
segnaletici. Da un suo compare si era fatto prestare il camion che sarebbe
servito per il trasporto di materiale e refurtiva.
Alle dieci in punto l’autista bloccò il mezzo.
Proprio in corrispondenza dell’attico da visitare. Già imbacuccati come tre
consumati imbianchini saltarono giù dal mezzo, uno dopo l’altro. Circoscrissero
la zona con il nastro bianco e rosso a più riprese. Montarono l’impalcatura
mobile, lentamente come a voler saggiare il terreno. Un passante si arrestò un
attimo. Guardò e proseguì oltre. Pensò esattamente quello che i nostri
volevano: imbianchini che si apprestano a compiere il loro solito lavoro.
Tubo dopo tubo, tavolone dopo tavolone i tre
si trovarono faccia a faccia con il finestrone desiderato. Tutto come previsto.
Un orologio svizzero. Di lì a poco avrebbero messo a soqquadro un ricco attico
di quattrocento metri quadri. Il camion giù non aspettava altro.
«Passami il piede di porco.»
«Ma quale piede di porco. Fatti in là che ti
faccio vedere io. Una spallata e siamo dentro.»
Non c’era mai nessuno, a quell’ora,
nell’attico. Eppure dopo il primo colpo di spalla il capo aveva sentito
qualcosa provenire dall’interno. Altra spallata. Più forte. Niente, il
finestrone non si apriva.
Altro rumore oltre il
vetro.
L’orecchio destro dei tre, a turno, si assestò
contro la parete. “Qui c’è qualcuno” dedussero i malviventi e se la dettero a
gambe levate. Abbandonando trabattello, piede di porco, elmetti e camion, per
non perdere tempo.
La famigliola dell’attico, madre, padre e
bambina, rientrarono la sera insieme. L’ingegnere aprì il portone. La signora ai
fornelli. La figlia, come sempre, di corsa nella sua stanza in fondo, chiamando
per nome il coniglietto. Aspettava, impaziente, nella sua gabbia rossa.
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