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I racconti di Damiano Leo

Sabato 19 Dicembre 2015

IL CAVALLO A DONDOLO


Si era all’inizio degli anni ’60. Non si navigava nell’oro. Veramente in paese lo facevano in pochi. Comunque mio padre e mia madre, uniti nella buona e nella cattiva sorte, non ci facevano mancare nulla. Non si andava mai a letto senza cena. Neanche quando a seguito di qualche marachella, i miei usavano il monito: “Adesso a letto senza cena” come una scimitarra. Riuscivamo a vivere bene, anzi dignitosamente, del nostro poco. I nostri ci avevano insegnato a dare il giusto valore alle cose. Ci avevano fatto capire che prima bisognava pensare all’indispensabile, e poi, ma con la giusta misura, si poteva pensare anche al futile. Mio padre e mia madre, gioco forza, avevano affinata l’arte del sapersi arrangiare. Maestri di vita, ma anche i maestri, qualche volta, sbagliano. Con questo piccolo aneddoto vi racconterò come in uno di quei giorni, di quel lontano fine ’60, sbagliò mio padre o mia madre, o forse tutti e due, o forse nessuno dei due, a voi “l’ardua sentenza”.

Non era mai successo, ma quella sera frigo e dispensa, non avevano nulla per la cena. Cinque fratelli, io fra loro, cominciavamo a scalpitare. Il solito piatto caldo con poi sgombro o mortadella o alici sotto sale, si facevano attendere. Mia madre ci distraeva come poteva e in cuor suo sperava che mio padre, rientrando dal lavoro, portasse a casa qualcosa da mettere sotto i denti. Lo faceva spesso e, di tanto in tanto, per la gioia di noi piccoli, si permetteva qualche leccornia. “I ragazzi non possono mangiare sempre le stesse pietanze” - si giustificava con sua moglie -. Mia sorella Maria, ignara della vacca magra, cominciò ad apparecchiare. D’altronde già da un pezzo s’era fatta l’ora della cena. “Aspettiamo papà” - urlò mia madre dalla cucina -. “Abbiamo fame” rispondemmo quasi all’unisono io e i miei tre fratelli più grandi. “In questa casa si mangia tutti insieme”, ci azzittì la mamma, rumoreggiando tra stoviglie e piatti. Mia madre prendeva tempo e continuava a sperare che papà portasse qualcosa. “Che c’è di buono, questa sera?”, chiese Vito. “Acqua calda con la forchetta”, scherzò la mamma, facendo capolino dalla cucina. A pensarci bene mia madre, quella sera, non scherzava affatto. Notai, dal tono della voce, una sua imminente crisi di nervi. Mio padre tardava. I piatti in tavola continuavano a restare vuoti. Maria, aiuto cuoca, divenne presto complice della genitrice. Rumoreggiava anche lei con pentole e mestoli, per ingannare noi maschietti e prendere altro tempo. Papà, ormai, sarebbe arrivato a momenti. Non rientrava mai a mani vuote. Non lo fece neanche quella sera. Però portò a casa un cavallo a dondolo. Lo stesso che aveva ammirato per mesi nella vetrina di Gianfreda. Forse lo stesso che aveva sognato da bambino. Quel cavalluccio a dondolo, di legno, chiesto da bambino a babbo Natale, per anni e mai avuto. “Prima l’indispensabile e poi il futile”. Aveva portato a casa il segno di quel “poi” che, per lui, non era arrivato mai. Ora voleva che almeno i suoi ragazzi avessero un giocattolo di tutto rispetto. Mia madre aspettava qualcosa da mettere in tavola. Cinque bocche da sfamare non lasciano spazio ai sogni. Così quel cavallo di legno si trasformò in un serpente che morde il suo soccorritore. Rischiò di volare dal balcone e di essere sfracellato sul pavimento. “Quelli hanno fame” – sbottò mia madre – “e tu ti presenti con un dondolo di legno”. Strappò dalle mani di suo marito quello che doveva essere un nostro meraviglioso giocattolo per chissà quanto tempo e inforcò l’uscita ripetendo a più riprese: “Un cavallo a dondolo, un cavallo a dondolo…”. Tornò poco dopo con una grossa scatola di sgombro. Buona per una cena, ma assolutamente inutile per appagare il sogno di un padre.

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