Martedì 1 Dicembre 2015
RIMORSI
Nella prima quindicina di
giugno, quando a scuola facevano la melina, mio zio, immancabilmente,
si trasferiva in campagna. A pochi chilometri dal paese. Prenotava un
treruote. Caricava pentolame, vestiti, cianfrusaglie varie e moglie e
si rifugiavano al trullo. Non avevano figli, solo nipoti, creature
dei tanti germani. Io fra loro.
Scalpitavo per raggiungerli. I miei, anche per
allentare le loro incombenze, me lo consentivano. Lo zio mi veniva a
prendere con la sua bicicletta color canna di fucile. A destinazione
mi assestava due o tre forti pacche sulla spalla. Era il suo modo di
darmi il benvenuto. La zia gli ricordava di non essere troppo
violento con il bambino. Troppo fragile per le sue manacce. Troppo
sensibile - diceva lei - per il suo modo d’accogliere il nipotino.
Io, invece, pensavo che al suo posto avrei fatto lo stesso e non ci
facevo caso. Raggiungevo, in un battibaleno, il mio campo
di battaglia.
Uno dopo l’altro mi tornavano in mente tutti gli
esperimenti e il passa tempo degli anni precedenti. Quello, però,
che più mi dava soddisfazione, ma anche rimorsi, era individuare
l’animale che io potevo catturare e vivisezionare.
All’ombra del pergolato studiavo l’andirivieni di
quegli esseri. Mi acquattavo in religioso silenzio per non disturbare
il loro lavorio. Ne individuavo uno che seguivo con lo sguardo fino a
quando non spariva dietro ad un albero d’ulivo o di fichi. Quindi
tornavo con gli occhi ai tralci, alle foglie, nuovamente agli
animali.
Questa volta cercavo quello più corpulento. Ecco è
quello. Color arancione. Ne contemplavo corpo, torace e addome.
Contavo più volte le sue zampe. Erano sempre sei. Sistemate a
corredo di un apparato boccale masticatore con robuste mandibole e
antenne. Lo avvicinavo più che potevo. Attento a non farlo scappare
via. Notavo come tra il torace e l’addome avesse un restringimento.
Lunghezza più o meno trenta millimetri.
Sempre con gli occhi puntati sulla vittima prescelta,
tiravo su una foglia secca. La ripulivo. Ne recuperavo l’estremità
più dura e la lanciavo contro. Quella con le mascelle, come se
fossero catapulte, la espelleva. Quindi mi attaccava, lanciandomi
contro una spruzzatina di acido formico, che non mi distoglieva dal
mio proposito.
Qui mi prende il rimorso.
Allungavo pollice ed indice verso l’animale. Con
precisione chirurgica strappavo, uno dopo l’altro, funicolo, stelo,
pungiglione, femore, tibia, artiglio tarsale. Completavo l’opera
spezzando in tre la malcapitata. Ne ho ancora il rimorso. Prima il
capo, poi il torace, quindi l’addome. Altre sostanze tossiche e
irritanti schizzavano lontano, come se quella povera formichina mi
volesse maledire. Chi sa se dal quel suo micro mondo poteva farlo.
Intanto dall’inizio dell’addome i suoi organi stridulanti, per
sfregamento, emettevano deboli suoni. Facendo le dovute proporzioni
somigliavano agli urli che avrei potuto fare io se qualcuno avesse
tentato di strapparmi le dita ad una ad una.
Una formica, tanti rimorsi.
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